Acoustic Night, la saga continua
La festa di Beppe Gambetta è ripartita da Genova con Mark Harris, Paolo Giovenchi e Ellade Bandini
Una frase di Ezio Bosso, scomparso un anno fa, ha fatto da filo conduttore alla Acoustic Night di Beppe Gambetta, primo concerto “in presenza”, pur col distanziamento e la capienza ridotta a tornare a Genova, e per quattro sere consecutive. Uno sforzo organizzativo il cui merito va al chitarrista e compositore genovese e alla sua compagna di lavoro e nella vita, Federica Calvino Prina: «Ricordati che quella che pensi sia l’ultima nota della tua frase è la prima nota dell’altra. L'ultima nota scritta, quando finiamo un concerto, è la prima nota di chi esce là fuori».
– Leggi anche: Le città della musica per l'Acoustic Night 2019
Sergio Bianco, disegnatore del “logo” delle scenografie dell’Acoustic Night dall’inizio quest'anno ha scelto una serie di note “si” che si intersecavano: la note ponte che riporta al do, dove tutto inizia di nuovo, come sarebbe piaciuto a Bosso. Tre serate consecutive alle 19, una finale alle 16: Gambetta, al solito, non s 'è risparmiato, pur nel rispetto delle regole, e il pubblico ha risposto con entusiasmo e una punta di commozione. Magari celata da una mascherina FFP2 calata su naso e bocca.
Il ritorno della Acoustic Night, uno degli appuntamenti più riusciti, continuativi e curiosi della scena peninsulare, dunque, ha dovuto scontare diverse difficoltà: “trasformandole in opportunità”, come ha raccontato dal palco Gambetta. L’opportunità ad esempio di articolare un programma contando su musicisti di valore ma non dall'estero: ecco allora la scelta, per Gambetta, ora anche autore di canzoni (nella cinquina dei finalisti del Tenco con Dove tia o vento) di costruire uno spettatolo che rendesse omaggio, ai “compagni di viaggio”, quei musicisti eccellenti e mai troppo celebrati che hanno fatto grande la canzone d'autore italiana.
Come Mark Harris, pianista, coetaneo di Gambetta, classe 1955, uno che italiano non è, essendo nato nel Connecticut, ma che da una vita è qui: ha suonato con Al Jarreau e Enzo Jannacci, Dee Dee Bridgewater e Fabrizio De André (suo gran parte del “sound” de L’indiano), Paolo Giovenchi, chitarrista e bassista da anni nel giro di Francesco De Gregori e Grechi, talento di arrangiatore tanto misconosciuto quanto reale. Infine Ellade Bandini, in buona sostanza la storia della batteria italiana al servizio, con delicatezza e potenza assieme, delle grandi note d'autore: da De André a Guccini, passando per tutte le”stazioni d’autore ” intermedie. Un gruppo dunque, assestato su un curioso equilibrio folk jazz rock: il meglio per il Gambetta d'oggi, equamente diviso ora tra scrittura di canzoni che restino e tocco strumentale in flatpicking di livello internazionale, senza dover più dimostrare niente a nessuno sul propri valore. Ecco allora “compagni di viaggio” (come la canzone dylaniana di De Gregori, peraltro eseguita testualmente, in uno dei fiammeggianti e commoventi bis finali) a servizio della canzone con la “c” maiuscola, con nervature country rock e ficcanti divagazioni in jazz, nello spazio di improvvisazione totale lasciato a Bandini e Harris nella terza serata, quella di cui si rende conto qui.
Un nome che veniva fuori su tutti? Fabrizio De André, che con il duo appena citato ha interagito a lungo, sui palchi e in studio, che ha lavorato per vie misteriose ed efficaci con De Gregori, e che è un riferimento imprescindibile per Beppe Gambetta: ascoltare dal palco una impegnativa e struggente versione di "Ottocento", brano di una complessità esecutiva notevole avrebbe di per rappresentato un buon motivo per esserci. Ma anche "Â duménega", trasformata quasi in un minuetto danzante strumentale. Harris ha scelto come suo spazio personale "Vengo anch’io" di Jannacci, cavando dal fondo della cassa toracica yankee una vocina garrula perfetta, Paolo Giovenchi una canzone nuova che esce in questi giorni scritta assieme al fratello di De Gregori, Luigi Grechi.
Un terreno comune? Il blues scelto da Harris, ascoltato da ragazzino sui dischi: "I Sing the Way I Feel", pura polpa sonora New Orleans da J.B. Lenoir. Silenzio in sala quasi religioso quando Gambetta ha fatto risuonare le note di "Dove tia o vento", un testo che vale come un saggio di storia sulla nostra mancanza di memoria da emigrati. Chiusura con "Dio è morto”, in spettacolare versione country rock: a dispetto del titolo, e mezzo secolo dopo la pubblicazione, ancora un segno di speranza, per questi tempi amari. La saga continua.
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