Giuseppe Albanese in un “tutto Chopin” da incorniciare
Roma: splendido concerto imperniato sulla musica dell’ultimo periodo del compositore
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In un tempo non lontano i pianisti consideravano l’apogeo della loro arte presentarsi al pubblico con la musica del “poeta del pianoforte”, definizione che sembrava stucchevole e forse lo era. Ma i concerti pianistici dedicati a Chopin erano talmente frequenti che divennero banali e scontati. Oggi si è giunti al paradosso che mettere in programma soltanto Chopin è una scelta piuttosto rara, perfino coraggiosa. Ma questo non basterebbe a rendere “albo signanda lapillo” la serata chopiniana offerta da Giuseppe Albanese al pubblico della IUC - Istituzione Universitaria dei Concerti, se non vi avessero concorso una scelta dei brani molto interessante e un’interpretazione letteralmente straordinaria, che rivela la splendida maturità d’interprete raggiunta da questo quarantaquattrenne pianista.
Il programma presentava quattro pezzi di Chopin non frequentemente eseguiti in concerto, con l’eccezione della Ballata n 4. Furono scritti tra il 1841 al 1846, un arco di tempo breve ma molto importante nel percorso artistico di un compositore vissuto solamente trentanove anni. In quel periodo la sofferenza fisica e morale causatagli dalla malattia che avanzava inesorabilmente e il tormentato rapporto passionale con George Sand alimentavano in Chopin un’insoddisfazione crescente per quel che aveva scritto fino ad allora e lo spingevano alla ricerca di nuovi sviluppi della sua arte, che si manifestano nella complessa e audace concezione formale di questi quattro lavori e nell’asprezza armonica di molti passaggi. Questo Chopin non è così facile per l’ascoltatore – e per l’esecutore – come i brani cantabili e sentimentali dello Chopin più giovane e più noto.
Per la prima parte del concerto Albanese ha scelto tre brani che fin dal titolo rivelano la loro grande libertà formale: sono, nell’ordine in cui sono stati eseguiti, la Polacca-Fantasia op. 61, la Fantasia in fa minore op. 49 e la Ballata n. 4 op. 52. L’op. 61 è l’ultima delle diciotto polacche composte da Chopin a partire da quando era un bambino di sette anni ma in realtà solamente a tratti è possibile riconoscervi una polacca, perché è talmente libera da trasformarsi in qualcosa di assolutamente singolare. Al confronto la Fantasia è, pur nella sua libertà, più omogenea e coerente. Entrambe sono articolate in vari episodi, che rivelano un’urgenza narrativa che le accosta alla Ballata n. 4, considerata la trasposizione musicale di una poesia di Adam Myckiewicz, se si crede all’affermazione di Schumann. Forse Chopin può essere stato ispirato dall’universo poetico di Myckiewicz ma sicuramente non si riferisce ad un preciso testo e segue un filo puramente musicale, “narrando” qualcosa che solo la musica può esprimere e che non appartiene al mondo degli avvenimenti, pensieri, sentimenti, sensazioni e immagini che le parole possono raccontare.
Queste tre opere in un movimento unico ma ampio e articolato sono accumunate dalla complessità armonica e dall’ambiguità formale, che a tratti giungono ad obliterare la melodia. Albanese rivela di conoscere a fondo il mondo complesso e intricato di questo Chopin. Lo rivela subito nelle prime battute del concerto, dando nell’introduzione della Polacca-Fantasia un peso e un valore diversi e specifici ad ogni singola nota non solo nei passaggi melodici ma anche negli accordi, guidando così l’ascoltatore in un percorso che cattura per la sua carica emotiva non epidermica ma – come definirla? – profonda, trascendente. Da queste pagine introspettive Chopin passa ad audaci e perfino sconcertanti sezioni armonicamente intricatissime, spesso abbinate a ritmi furenti, quasi selvaggi, in cui la melodia scompare. Simile discorso si può fare a proposito delle altre opere in programma, inclusa la Sonata n. 3, che occupava l’intera seconda parte del concerto: è una delle rare composizioni di Chopin divise nei classici quattro movimenti, ma la sua costruzione audace ed innovativa e la sua ambiguità armonica rivelano la vicinanza non solo cronologica alle altre tre composizioni in programma. Anche qui l’interpretazione di Albanese è una rivelazione, che fa saltare l’opinione corrente che classifica questa Sonata come la sorella minore delle ben più nota Sonata n. 2 “Marcia funebre”.
Non ricordiamo di aver mai sentito queste musiche eseguite con tale profondità interpretativa, a cui probabilmente non sono estranei gli studi di filosofia di Albanese, conclusisi con una tesi di laurea in estetica. Alla perfetta miscela della rara e acuta intelligenza dell’interprete e alla sua altrettanto rara sensibilità si unisce una tecnica splendida. Non mancano affatto ad Albanese quelle doti di precisione, forza e velocità in cui altri pianisti fanno consistere tutta la loro arte, mentre per lui la tecnica non è fine a se stessa e serve a realizzare pienamente questo complesso pensiero musicale. In particolare si ammira il suo tocco, sensibilissimo nei passaggi più morbidi e delicati, che mai diventano fiacchi e sdilinquiti, e molto energico ma sempre flessibile nelle pagine più robuste, che smentiscono la vecchia immagine un po’ sdolcinata di Chopin, dura a morire.
Il successo è stato adeguato alla bellezza di questo concerto. Gli applausi non finivano mai e alle richieste di bis Albanese ha risposto con il Notturno in do diesis minore, pubblicato postumo ma scritto a vent’anni d’età, che ha consentito ad Albanese di dimostrare di essere un grande interprete anche dello Chopin più sognante e carezzevole. Poi ha offerto altri tre fuori programma: Moto perpetuo di Weber e due brani di Albeniz, Triana e Navarra. Impossibile non porsi una domanda: perché in Italia non valorizziamo adeguatamente pianisti come Albanese (e non è l’unico) e ricorriamo così spesso a pianisti più famosi e mediatici ma raramente alla sua altezza.
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