Uno, cento, mille Jim O'Rourke
Un weekend tutto per il musicista al Centro d'Arte dell'Università di Padova
Secondo weekend consecutivo a Padova per i concerti della stagione del Centro D’Arte: dopo quello dedicato ad Akira Sakata, stavolta il protagonista è Jim O’Rourke, con uno special project in esclusiva europea declinato in due serate, tra Auditorium Pollini e Sala dei Giganti Al Liviano, dove abbiamo modo di ascoltare due composizioni recenti di musica elettroacustica e due set di improvvisazione del trio Kafka’s Ibiki, dove O’Rourke, accompagnato da Eiko Ishibashi (flauto, pianoforte, elettronica) e Tatsuhisa Yamamoto (batteria), suona elettronica e basso elettrico.
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“Shutting Down Here”, con il solo O’Rourke ai live electronics, è frutto di una commissione del prestigioso studio di ricerca parigino INA-GRM ed è già fissata su disco nel 2020 per Editions Mego.
Bolle di archi, fiati, suoni da una distanza, cinema per l’udito, reso più agevole nella sua fruizione dalla versione multicanale e dall’impianto dell’Auditorium che permette di “vedere” ciò che le orecchie sentono. La composizione sfugge dal retorico sviluppo per accumulo, esplosione e risacca per procedere per bugie, satori, cambi di binario repentini, tutta all’insegna della creazione di un mondo stratificato, enigmatico, ipnotico, riduzionista, apparente minimale, ma in realtà traboccante di segreti.
Carillon d’apocalisse, sferragliare di posate come ad un’ultima cena, cluster di pianoforte, ombre, un mood elegiaco e la capacità di piazzare minimi cenni melodici, anche solo con tre accordi, che aprono istantaneamente altri panorami. La tensione, sottilissima, non si risolve, non deflagra mai. Percorriamo e perlustriamo un infinito pendio diversamente orizzontale, popolato di strane, inafferrabili presenze; un tramestio di passi con cenere di suoni: da quel fondale emergono forme tutte diverse; a risaltare, in tutto il suo nitore, è la natura profondamente metamorfica del pezzo, che osserviamo come fosse un organismo biologico nel suo evolversi attraverso la lente di un microscopio.
Radiografie sbiadite di musiche del Novecento: a un certo punto sembra di sentire due, tre, quattro andamenti, discorsi differenti che procedono autonomi intersecandosi e sovrapponendosi come in una geometria libera ed esatta o in una Babele di lingue dove il miracolo della comunicazione è capirsi nonostante le spiegazioni. Il risultato è una forma aperta,eppure dotata di una sua intima coerenza narrativa.
“Most, But Potentially All”, è l’altra composizione, scritta per la tromba di Eivind Lønning e pubblicata da Smalltown Supersound nel 2024; qui onere e onore dello strumento spettano all’ottimo Flavio Zanuttini, esponente della fervida scena di musiche creative del Friuli Venezia Giulia, già responsabile di alcuni interessanti dischi solisti (La Notte, Creative Sources Recordings, Gingko, per Setola di Maiale), oltre che, tra le altre cose, titolare di Peace In Space, un bel disco in duo con il batterista sloveno Zlatko Kaučič, protagonista di un’intervista proprio su queste pagine.
Eccellente il controllo del musicista su timbri e dinamiche; in alcuni frangenti la tromba sembra un polmone abitato da una tosse cosmica; poi sabbie gelide, astronomia e speleologia. Forse più mistica e ostica a suo modo questa composizione, come una lunga esplorazione negli inframondi celesti. Dopo varie mutazioni, tra trasfigurazioni del respiro ed elaborazioni digitale, tra scrittura e improvvisazione (avremo modo a fine concerto di vedere lo spartito di Zanuttini) a un certo punto si entra in un altro luogo: un alveare d’archi che rimbombano come in una grande cattedrale.
Una lunga manovra orchestrale di avvicinamento in un’oscurità siderale, kubrickiana, per poi uscire fuori a riveder le stelle. Il secondo movimento è quasi tibetano nella sua apparente, ineffabile fissità; un’estasi rarefatta, meditativa ma non pacificata con la tromba trasfigurata dall’uso di un piatto splash in fondo alla campana, con effetti che rimandano al Peter Evans più astratto.
La musica finisce disapparendo, in enigmatica sottrazione. Il giorno dopo torniamo alla Sala Dei Giganti: tocca a Kafka’s Ibiki, per la prima volta in Europa. Avvisaglie di flauto (Ishibashi) sospese per aria, l’elettronica sottile, mentale di O’Rourke a sfruculiare, la batteria del bravissimo Yamamoto ad ampliare ulteriormente lo spettro. Il piano (sempre Ishibashi) parte in modalità orizzontale/fibrillante, O’Rourke imbraccia il basso ma prima di suonare la prima nota attende a lungo, come la lasciasse salire con calma da dentro; poi, dopo averne piazzate cinque, sei, sette, aspetta ancora.
Se i tasti bianchi e neri suonano come martelli celesti, il basso si fa prendere da un’andatura kraut mentre la batteria swinga a meraviglia: l’effetto complessivo è una sorta di lungo piano sequenza con l’inquadratura un po’ storta, o la scena alla moviola di un affondamento di un transatlantico tra i marosi. Poi la pioggia ossessiva si placa, senza essere mai esplosa in tempesta ed emerge da dietro le quinte un paesaggio abstract ambient dove il suono del flauto viene elaborato elettronicamente; la batteria aggiunge altra pioggia allo scenario lunare, Jim inietta un lento, dolce veleno sottopelle il cui effetto comincia finalmente a diffondersi nelle vene. In questa prima parte, che regala buoni e ottimi momenti ma restituisce l’impressione di un’improvvisazione non ispiratissima, il ruolo del leone spetta a Yamamoto, sempre lievissimo e cruciale. Molto interessanti i frangenti in cui i musicisti, senza lasciarsi andare al motorik e al palla lunga e pedalare scelgono di non rapprendere le idee in una forma solida ma guardano le nuvole e cercano di imitarle.
Arriva un drone scuro e minaccioso dal mood simile a “Omaggio a Giacinto Scelsi” del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza ; il lavoro di Ishibashi risulta più pregnante al flauto, efficacemente mutato in altro tramite gli effetti, che non al pianoforte. Come in un ciclo, riaffiorano i suoni digitali dell’inizio, poi silenzio., Dopo un breve intervallo il secondo set si apre con un flipper elettronico e fruscii digitali che riportano dritti ai giorni d’oro del glitch; immaginiamo Oval, Matmos o Mouse On Mars convertiti allo swing. Stavolta il trio azzecca un groove che non ammette repliche e il batterista si conferma un grande punto di forza del trio: non banale accompagnatore, ma sempre a fuoco, espressivo, puntuale. L’andamento è simile a quello al quale ci hanno abituato i migliori Necks, ma al posto del contrabbasso ci sono tre note tre ciancicate dall’elettronica di O’Rourke, tra pause, ripetizioni ed evoluzioni.
La coda, quasi una versione avant-dub del trio australiano, è un’elegia che inciampa, fragile e struggente, verso la fine. Poi il cielo, che si era fatto sereno, si chiude e vira verso un tornado con le dinamiche tutte sul forte e fortissimo. Il vento si posa e poi finisce.
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