I 10 migliori album del 2024 di Enrico Bettinello

È di nuovo quel momento dell'anno: jazz, songwriting trasversale, post rock e molto altro

Jessica pratt
Jessica Pratt
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Nel giro di pochi anni, complice la metastatica proliferazione di contenuti che la rete consente e favorisce, le liste dei dischi di fine anno hanno iniziato a essere percepite come le feste comandate. E non è forse solo una coincidenza che càpitino più o meno nello stesso periodo.

Irrinunciabili, ma anche un po’ “che noia”. Gioioso momento di ricongiunzione degli affetti, ma anche diaboliche micce pronte a far detonare tensioni e disaccordi. Trionfo della golosità, ma “datemi un  Alka-Seltzer, mamma mia che pesantezza!”. Un altro calice di spumante, ma speriamo che l’ebbrezza non ci faccia dire cose sconvenienti…

– Leggi anche: Il meglio del 2024

Come risolvere questo apparentemente irrisolvibile dilemma? Come stilare l’ennesima lista che rischia di finire poi nel cassetto come l’ennesima cravatta allo zio che vediamo una volta l’anno?

Se state leggendo queste righe, ho una buona e una cattiva risposta per voi. La cattiva è che ci siete dentro e che, a meno di non voler lasciare il cenone a metà, con la nonna in lacrime e le lasagne fumanti, anche quest’anno va così. La buona è che a fine anno siamo tutti più buoni e magari qualche disco era sfuggito e qualcun altro lo riascoltiamo con altra predisposizione e insomma, tenete duro che tra poco è finita, ma intanto, buoni 10 dischi del 2024 a tutte e tutti!

1. Jessica Pratt, Here in the Pitch, Mexican Summer

Da dove è piovuta questa breve e folgorante meraviglia di songwriting trasversale? Da degli anni Sessanta lo-fi e minimali? Da un sogno lisergico pomeridiano di Serge Gainsbourg? Da un sink-hole folk che si apre improvviso nel cuore di questa musicista americana dalla voce acidula e misteriosa? Straniante e bellissimo, spettrale e consolatorio, si insinua negli ascolti e non lo cacci via nemmeno con le cattive… pensa te se riesci a capire da dove è venuto.

2. Anna Butterss, Mighty Vertebrate, International Anthem

Qualche nostalgico potrebbe chiamarlo post-rock. La fluidità necessaria oggidì impone di svincolarsi dalle obsolete categorie e quindi non aspettatevi conferme o smentite. Per i più affezionati fa fede il nome International Anthem, etichetta che continua a non deludere. Se vogliamo poi parlare di funk strumentale scheletrico e atmosferico, di “post-jazz” come hanno scritto in molti, di avventuroso prog-hop e così via, non cambia molto, perchè il disco funziona anche se non si trovano le parole. Forse proprio per questo.

3. Otis Sandsjö, Y-OTIS TRE, WeJazz

Sassofonista svedese stabilmente incardinato a Berlino, l’impronunciabile Sandsjö (io come si dice me lo sono fatto dire e non ci provo nemmeno a ripeterlo per non fare figuracce) arriva al terzo capitolo del suo progetto Y-OTIS (tre invece si dice tre pure lassù e qui ci va bene) con Petter Eldh al basso e Dan Nicholls alle tastiere più ospiti vari. Tra campionamenti, taglia e cuci di lunghe jam e un vocabolario che al jazz sperimentale unisce quello dell’elettronica più eclettica, ne esce un piccolo classico di jazz futuribile.

4. Camilla Battaglia, ELEkTRA, Ropeadope

Frutto di un lungo e ostinato lavoro che ha coinvolto molti musicisti e musiciste della scena jazz italiana (da Simone Graziano a Francesca Remigi), questo progetto di Camilla Battaglia ripaga pienamente la laboriosa attesa, grazie a una riflessione sul femminile, archetipico e contemporaneo, che si tuffa nella tradizione greca (Cassandra, Elettra, Aspasia…) e ne riporta a galla urgenze sociali e culturali. Sì, ma la musica? Bella, tesa, mai ripiegata su se stessa, come se vibrasse della propria convinzione. 

5. McCoy Tyner/Joe Henderson, Forces of Nature Live at Slugs, Blue Note
Lo sapete come sono gli appassionati di jazz, vero? Date loro un inedito, una rarità, una qualsiasi cosa rimasta nel cassetto di quei tempi mitici che sembrano sempre rimpiangere e li fate felici. In questo caso il quartetto di McCoy Tyner con Joe Henderson al tenore, Henry Grimes al contrabbasso e Jack DeJohnette alla batteria, catturato allo Slugs’ di New York nel 1966 è una di quelle cose che fanno fare un salto sulla sedia. Energia e fantasia improvvisativa, tutta la maestosa potenza del jazz di quegli anni nelle mani di quattro demiurghi dell’improvvisazione. Pazzesco.

6. Ibelisse Guardia Ferragutti & Frank Rosaly, MESTIZX, International Anthem

Musica che proietta le esperienze umane (la Guardia Ferragutti è bolivian/brasiliana, Rosaly è di origine portoricana e l’ha conosciuta a Amsterdam passando per Chicago) dentro un impulsivo futurismo post-coloniale, quella di questo duo - cui si aggiungono ospiti dalle scene creative di Chicago - ci invita a una ritualità intima e coloratissima. Sotto la croccante ecletticità quintomondista brucia un’urgenza poetica che lentamente incenerisce ogni resistenza. Che bellezza!

7. Nìdia & Valentina, Estradas, Latency
Il dialogo tra le percussioni di Valentina Magaletti (Moin, Tomaga) e il beat-making della portoghese Nìdia è una magnifica ossessione poliritmica. Tra il post-punk più afrodiscendente e il miraggio di un club latino su Marte, le due artiste lavorano stratificando gesto sonoro e post-produzione, inscatolano tutto dentro a un cubetto iridescente e lo fanno danzare attraversato da uno sciame di luci polverose, lasciando che i dettagli brillino quando meno te lo aspetti. Inatteso.  

8. Evita Polidoro, Nerovivo, Tǔk Music

Non si può non adorare Evita Polidoro. Originalissima batterista contesa tra Enrico Rava, Dee Dee Bridgewater e alcuni dei migliori gruppi emergenti italiani, si sta anche affermando con traiettorie esterne e tangenti al jazz, come è naturale che sia per un talento della sua generazione. Il progetto Nerovivo, tutto chitarre, batteria e voce in una sorta di post-rock notturno e intimo che sembra risucchiare chi ascolta dentro i suoi stessi pensieri. Che voglia di volare!

9. The Necks, Bleed, Northern Spy

Affidarsi a un disco dei Necks è come andare da quei parrucchieri cui dire “faccia lei!” e poi si chiudono gli occhi. Il viaggio non è mai noto né prevedibile, ma è sempre sorprendente e bellissimo. In questa unica traccia di poco meno di tre quarti d’ora il trio australiano sceglie di non lavorare con le proverbiali stratificazioni post minimal, ma preferisce accendere fari inquieti su un paesaggio scarnificato e seducente (quando non minaccioso) di cui non si riesce mai a cogliere l'interezza. Finezza sopraffina.

10. Sliders, Sliders, Hora Records

Uscito e svelatosi un po’ alla chetichella nelle ultime settimane dell’anno, questo disco si è guadagnato un posto nella top ten grazie alla sua formula originale: tre tromboni. Filippo Vignato, Federico Pierantoni e Lorenzo Manfredini mettono insieme i propri timbri bruniti, in un camerismo dal brass band quasi rinascimentale che si frammenta in mille modi. Tra riletture di Ellington, Coltrane e Egberto Gismonti e calibrati originali, un piccolo gioiello di jazz traslucente e fuori dal tempo. 

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