Il post jazz secondo Anna Butterss
Mighty Vertebrate è il nuovo album della bassista e compositrice australiana
All’esordio su International Anthem con il secondo lavoro da solista, in Mighty Vertebrate la 33enne Anna Butterss mette in mostra doti di compositrice, dopo essersi affermata in veste di strumentista versatile al servizio di artisti quali Makaya McCraven e Phoebe Bridgers.
Australiana originaria di Adelaide, risiede da un decennio a Los Angeles e ha trovato là un habitat propizio alla fioritura del proprio talento nel maneggiare contrabbasso – diventato per lei strumento elettivo all’età di 13 anni, nell’impeto di “un legame fisico ed emotivo mai sperimentato prima”, ha confessato mesi fa ad “Alternative Press” – e basso elettrico.
Fra i complici scovati in zona svetta la figura di Jeff Parker dei Tortoise, con cui improvvisava in un quartetto che prende nome dall’ETA, localino di Highland Park dove si esibiva periodicamente (a fine novembre uscirà, a proposito, The Ways Out of Easy: documento discografico di quell’esperienza registrato dal vivo nel gennaio 2023). Suo incondizionato estimatore (“Anna ha orecchie vaste e profonde come l’oceano Pacifico e un quoziente d’intelligenza musicale alto quanto il monte Everest”, gli è capitato di dire), è qui artefice dello swingante assolo di chitarra al culmine del sincopato “Dance Steve”.
Non è l’unico trait d’union con la “tartaruga” di Chicago: John Herndon, batterista del gruppo, firma la copertina del disco, quando all’ascolto la relazione di parentela viene evidenziata dal desertico fondale “post rock” di “Lubbock” e soprattutto dagli accenti “prog jazz” di “Pokemans”, episodio che rimanda ai modelli codificati in TNT e Standards.
Il prontuario stilistico esposto in Mighty Vertebrate ha tuttavia carattere composito: ad animare l’iniziale “Bishop”, introdotto dal pizzicato di Butterss, è ad esempio un tessuto ritmico di scuola afrobeat, mentre “Breadrich” ricorre a trazione hip hop e dissonanti armonizzazioni di sintetizzatore per assecondare il tracciato narrativo, affidato al campionamento di dialoghi dalla serie messicana La Casa de Las Flores (passaggio chiave: “L’omosessualità non è un’infermità, l’omofobia sì”), e il suggestivo “Shorn” ostenta cadenza e soluzioni di arrangiamento (persino un flauto suonato dall’autrice) dal vago sapore esotico.
Durante quel brano, oltre che nello spleen cinematografico distillato in “Ella” e nell’orbita ellittica di “Saturno”, elegante epilogo dell’opera, si apprezza in particolare il mellifluo fraseggio del sassofonista Josh Johnson, partner della titolare anche nel quintetto SML, dal quale proviene pure il chitarrista Gregory Uhlmann: insieme al percussionista e coproduttore Ben Lumsdaine, i due costituiscono l’organico schierato accanto alla protagonista in un album zeppo di inventiva e spirito d’avventura.