Oltre i confini fra generi
Una sfida alle tradizionali divisioni per generi i nuovi spettacoli di Alessandro Sciarroni, Silvia Gribaudi e Anagoor a OperaEstate di Bassano del Grappa e la Medea secondo Ben Duke alla Biennale Danza
Superare i limiti delle classiche classificazioni per generi. Se il mondo che abitiamo è confuso e confondente, non può non esserlo anche la sua proiezione scenica, sismografo sensibile dei (som)movimenti del nostro tempo. Scena appartata rispetto ai festivaloni dell’estate ma attenta a quei movimenti è OperaEstate, che forse mai come in questa edizione mette sul piatto proposte spiazzanti, come anche la Biennale Danza a Venezia. Ma la musica resta l’asse portante in tutte.
Spiazza Alessandro Sciarroni, Leone d’oro della Biennale Danza nel 2019 (regnante Marie Chouinard), che la motivazione indicava come “coreografo che crea in risonanza con l’arte della performance” e ancora “direttore d’orchestra dei danzatori e di tutti coloro che, provenienti da diverse discipline, invita a partecipare ai suoi progetti.” E nella sua produzione più recente Sciarroni è più che mai direttore d’orchestra di sette cantanti/performer per i quali costruisce una coreografia quasi completamente affidata voci. Intanto, il titolo: U. come “Un canto” forse. O magari come “Umanesimo”, in risposta alla sua estensione tecnologica del transumanesimo tracimante e sempre più condizionante dei nostri tempi.
La scena è vuota. Spartano il disegno luci, giusto un controluce per ricreare la suggestione del sorgere del sole che accompagna il primo degli undici canti, “È l’alba, è l’aurora” del camuno adottivo Piercarlo Gatti. Il grosso dei canti che seguono sono del vicentino Bepi De Marzi, fertilissimo compositore di brani di ispirazione popolare diventati parte del repertorio dei numerosi cori alpini che esaltano l’epica della montagna e della natura, come anche “Signore delle cime” che non manca nella succinta antologia di canti popolari per coro, musicalmente non troppo varia, assemblata da Sciarroni con la complicità di Aurora Banzà e Pere Jou, che hanno scelto e preparato per questa performance i sette giovani e bravi interpreti, cioè Raissa Avilés, Alessandro Bandini, Margherita D’Adamo, Nicola Fadda, Diego Finazzi, Lucia Limonta, Annapaola Trevenzuoli.
La coreografia di Sciarroni per questo U. non prevede movimenti o quasi. Disposizione frontale a semicerchio, sguardo fisso davanti a sé, qualche avanzamento lento (e coordinato) dopo qualche momento musicale, separato dal la di un pianoforte registrato. C’è solo uno scambio di sguardi, complici, in “Guarda gli occhi che ho” seguendo i versi di Roberto Piumini (“Guarda gli occhi che ho / Guarda lo sguardo / Con quello, come so, io ti parlo”) messi in musica dal milanese Angelo Mazza, altro della polifonia vocale. Il richiamo alla natura si fa scoperto con “Fratello Sole, Sorella Luna”, hit planetaria della coppia Riz Ortolani e Katyna Ranieri tratta dall’agiografia cinematografica francescana firmata da Franco Zeffirelli nel 1972, il cui spirito sembra anche animare il fuori programma, francescanamente intitolato “Cantico”, con i versi dello stesso Sciarroni e le armonie immaginate da Aurora Banzà e Pere Jou senza discostarsi troppo dal tono della serata. Dopo Bolzano, un successo anche a Bassano del Grappa destinato a ripetersi anche nel prossimo novembre al parigino Festival d’Automne, dove le creazioni di Sciarroni sono presenze fisse da anni.
Più classificabile secondo i canoni della danza il nuovo spettacolo di Silvia Gribaudi che segna la prima collaborazione con la MM Contemporary Dance Company e arriva a OperaEstate dopo numerose tappe europee. Ancora una volta la coreografa e performer torinese spariglia le regole canoniche della danza alle quali ammicca il titolo Grand jété, preso a prestito dal grande dizionario francofono del balletto classico. Grand plier, petit plier, glisser, tourner, croisé devant (e derrière), jeté en tournant, grande jété … Parole che rimandano a un campionario gesti e movimenti di un universo di bellezza come bloccato nel tempo. Parole lontane per i più alle quali Gribaudi cerca di restituire un nuovo senso. “Grand jeté” è uno dei passi più impressionanti e virtuosi dell’arte del balletto classico, una grande spaccata in aria che per un istante sottrae i corpi alla gravità, per un momento sospende le ferree leggi universali della fisica. È il coup de théatre (o piuttosto de danse) da servire al pubblico del balletto bramoso di momenti forti. È il salto nel vuoto che Gribaudi coniuga secondo le leggi fisiche del quotidiano, non senza uno sguardo ironico, mettendo in gioco sulla scena anche il proprio corpo poco conforme rispetto agli standard dei ballerini classici e dei corpi dei versatili danzatori che l’accompagnano sulla scena del Teatro Remondini di Bassano, cioè Filippo Begnozzi, Emiliana Campo, Lorenzo Fiorito, Mario Genovese, Fabiana Leonardo, Giorgia Raffetto, Alice Ruspaggiari, Rossana Samele, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa e Leonardo Zannella.
Sempre con il sorriso e una punta di malizia, Gribaudi mette in mostra le doti dei suoi giovani danzatori nei frequenti momenti di coreografia “pura” sull’inventivo sound design di Matteo Franceschini (altro Leone biennalizio, ma d’argento e per la musica nel 2019, regnante Ivan Fedele) che intreccia brandelli di trionfanti finali di classiche musiche da balletto in stranianti loop con più convenzionali sound elettronici, seguendo gli umori mutevoli del capriccioso disegno drammaturgico. Li mette anche alla prova nei momenti “villaggio turistico” trasformandoli in animatori in platea di un pubblico sollecitato a interpretare il proprio personale e liberatorio “grand jeté” ridotto a un movimento di braccia in aria.
All’intersezione fra danza, performance e teatro, si colloca anche Bromio, creazione del collettivo teatrale Anagoor (Leone d’argento della Biennale Teatro, regnante Antonio Latella), prodotto nella scorsa estate a Mülheim, nella regione della Ruhr, nell’ambito di una collaborazione con il Theater an der Ruhr, che dura da diverse stagioni. Bromio è uno degli appellativi di Dioniso o piuttosto di Bacco, che allude al fragore del tuono che, incenerendo la madre Semele, ne accompagnò la nascita o anche ai movimenti indotti dall’ebbrezza. Ancora una volta Anagoor si rifà all’antichità classica per questa creazione proposta come un “rituale poetico di trance” costruita su una drammaturgia di Simone Derai in collaborazione con Pietro Ramella, molto ermetica e decisamente più leggibile nel contesto del festival “Rausch” (Ebbrezza) all’interno del quale è stata ideata nel 2023 che come evento “stand alone”.
Una processione attraverso le vie della cittadina veneta accompagnati dal suono di campanacci diffuso da altoparlanti fissati sulle spalle di alcune guide e finalmente l’ingresso, uno ad uno, nello spazio della chiesa sconsacrata di San Bonaventura per assistere alla performance. Si appoggia su mezzi teatrali ridotti all’essenziale – un disegno luci che prova a evocare le inquietudini di un dio invisibile e incombente, la musica elettronica ripetitiva e avvolgente di Mauro Martinuzcatalizzatrice del processo di trance – ma fondamentale è soprattutto il contributo della danzatrice Marta Ciappina che, da locandina, firma la “drammaturgia del movimento” e prescrive ai performer un movimento circolare sollecitandoli a “una indagine sul corpo e sul movimento che conduca allo spirito attraverso il ballo, la festa, l’ebbrezza, l’estasi, attraverso tutte quelle pratiche di scuotimento che liberano il sé”, anche dal tessuto sociale di normalità in cui vivono.
Questo Bromio risulta più suggestivo nelle intenzioni dei suoi autori e attraente sul piano concettuale di quanto probabilmente non riesca davvero a trasmettere agli spettatori, che non partecipano se non con il proprio sguardo dai lati della sala al movimento incessante dei performer, alcuni da Mülheim, molti non professionisti della scena (ma fra loro ci sono anche Pietro Ramella e Marta Ciappina a “guidare le danze”). Difficilmente classificabile anche nel percorso artistico di Anagoor, questo Bromio si direbbe un lavoro di passaggio. Ma verso dove?
Appendice veneziana alle incursioni bassanesi, Ruination. The True Story of Medea firmato dal regista e coreografo britannico Ben Dukeper la sua compagnia Lost Dog, con il significativo sostegno produttivo del Royal Ballet di Londra, si inserisce perfettamente in questa breve rassegna estiva di spettacoli “inclassificabili”. Inserito nel cartellone della Biennale Danza diretta da Wayne McGregor, questo Ruination (Rovina) presenta una singolare versione della vicenda di Medea e Giasone. Che sia la storia vera, come da sottotitolo, è lecito dubitare. Di certo c’è che raramente capita di vederla raccontata (con)fondendo teatro, danza, musical e circo al servizio di uno spettacolo nel quale il virtuosismo di mezzi è messo al servizio del grande teatro.
Andato in scena a Londra nel Natale del 2022 al Linbury Theatre, nei sotterranei del Covent Garden, mentre sul palcoscenico principale il Royal Ballet si eseguiva l’immarcescibile Schiaccianoci (e dove tornerà anche per il prossimo Natale). Non senza un pizzico di britannico umorismo nero, Ben Duke notava come la storia di Medea fosse “l’opposto del Natale, perché parla della morte di bambini mentre il Natale celebra la nascita di un bimbo.”
Siamo nel “triage” degli inferi greci, che la fantasia della scenografa Soutra Gilmore immagina come il backstage di un teatro con due porte sullo sfondo: da quella di sinistra entrano coloro freschi di congedo dal mondo dei vivi e da quella di destra si penetra nel mondo dei morti, magari dopo aver bevuto un bicchiere di acqua del Lete dal distributore piazzato fra le due porte. Il custode è Hades, il dio dei morti e re dell’aldilà, in tutù ma senza mutande (gliele imporrà Persephone poco dopo) sogna di ballare lo Schiaccianoci che gli schermi del servizio di sicurezza rimandano dal “mondo di sopra”. C’è una lettiga metallica con il cadavere di un uomo coperto da un telo di plastica: è Giasone. E poco dopo arriva Medea. Si riforma la coppia fuggita a Corinto dopo aver commesso varie atrocità e che sarà teatro di quella, estrema, per la quale Ade in compagnia della compagna Persephone allestiranno, davanti a uno scheletro seduto e imparruccato, un vero e proprio processo che, come in molti classici del cinema, ricostruisce la storia attraverso numerosi flashback, con parentesi danzate e molte divagazioni musicali con il pianoforte (in scena) di Yshani Perinpanayagam, che all’inizio sembra lì per caso ma nulla lo è davvero, e Keith Pun, che presta la voce di controtenore alla “Cold song” dal King Arthur di Purcell ma anche a “Sposa son disprezzata” dal pasticcio vivaldiano Bajazet e a “Cara sposa” dal Rinaldo händeliano, tanto per dare una mano di poesia alle contese coniugali della coppia protagonista. C’è anche spazio per molto altro, da Steve Reich al “Mack the Knife” secondo Bobby Darin e ai Radiohead.
È uno spettacolo anarchico e spiritoso ma realizzato con impeccabile professionalità dai sei eccezionali performer, tutti con esperienze diverse, chi nella danza chi nel circo ma tutti egualmente versati anche sul piano attoriale, fondamentale in uno spettacolo in cui il parlato domina. Hannah Shepherd-Hulford e Liam Francis sono i due perfetti interpreti della coppia Medea-Giasone, entrambi ugualmente credibili nei diversi registri richiesti da Duke, dal burlesco delle parti recitate alla virtuosistica pulizia nei numeri di danza. Soprattutto Liam Francis ha modo di mettersi alla prova nella dimensione coreografica coniugata secondo registri molto diversi dal virtuoso stop motion del’impresa del vello d’oro, quasi un omaggio alle animazioni di Ray Harryhausen (e non per caso: sue sono le animazioni del film Jason and the Argonautsdi Don Chaffey), alla sensuale fluidità di movimento nel duo con Glauce (Maya Carroll), l’altra donna. Molto spassoso il duo dei sovrani degli inferi, che sono Jean Daniel Broussé (Hades) e Anna-Kay Gayle(Persephone) in completo rosa shocking d’ordinanza, come l’irsuto re Aeëtes di Miguel Altunaga.
Finito il processo ed emesso il verdetto impietoso su Medea, alla musica spetta l’ultima parola: è tutto di Sheree Dubois e alla sua voce soul l’emozionante finale che riprende il vecchio pezzo di George Harrison “Isn’t it a Pity”. Che è quasi una morale (se una morale ci fosse): non è un peccato come ci spezziamo il cuore a vicenda e ci causiamo dolore a vicenda? Come prendiamo l’amore dell’altro senza pensarci più e dimenticando di restituirlo?
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Al Reggio Parma Festival Derby Elettrico ha messo in scena il confronto tra i tre gruppi di Silvia Bolognesi, Francesco Giomi e Walter Prati
Le buone intenzioni della direzione artistica e l'impressione di un dialogo con gli altri mondi musicali rimasto incompleto
A Pesaro la prima nazionale della performance multimediale Kagami, di Ryuchi Sakamoto