Bianca e Falliero si riscattano a Pesaro
Lo spettacolo inaugurale del ROF ha evidenziato i non pochi pregi di questo melodramma, che hanno fatto dimenticare la sua prolissità
Bianca e Falliero fu scritta da Rossini per il Teatro alla Scala, dove venne rappresentata nel 1819 con grande successo di pubblico, come dimostrano le ben trentanove repliche consecutive. Ma dopo poche riprese in altri teatri scomparve dalle scene, per essere resuscitata dal ROF nel 1986 e poi riproposta altre due volte a pochi anni di distanza, sempre con accoglienze piuttosto tiepide. Ora, dopo altri ventidue anni, la perseveranza del ROF ha infine vinto i nostri dubbi - o almeno i miei - su quest’opera grandiosa e un po’ macchinosa, che ha alcuni momenti magnifici e altri pletorici, ma si mantiene sempre ad alti livelli. Sebbene sia stata scritta per Milano, conserva qualcosa delle opere serie napoletane di Rossini, con ‘numeri’ di ampie dimensioni, articolati in varie sezioni e collegati l’uno all’altro da recitativi accompagnati invece che divisi da recitativi secchi, di cui resta appena qualche residuo. È di marca napoletana anche l’importanza data al coro, che interviene in otto degli undici ‘numeri’, ma è qui usato principalmente per dare maggiore grandiosità al tutto, senza partecipare direttamente all’azione.
A farci capire ed apprezzare Bianca e Falliero dopo vari tentativi andati a vuoto è stata l’esecuzione, che aveva, come vedremo, qualche limite ma anche grandi pregi, quest’ultimi concentrati principalmente nella direzione di Roberto Abbado, nella sua apertura di credito al valore drammatico della musica di Rossini, nella sua attenzione a mettere nella giusta luce ogni dettaglio dell’orchestrazione, nella sua capacità di cogliere l’essenza del linguaggio ‘serio’ rossiniano anche in certe formule ricorrenti, che si trovano simili o identiche sia nelle opere sia serie che comiche: ma Rossini aveva capito, prima che la semiotica moderna ce lo spiegasse, che una stessa musica assume significato diverso ed è drammatica o comica a seconda del contesto, come avviene con le parole. L’interpretazione attenta e calibrata di Abbado mette in luce il significato drammatico di questa musica con una serie di accorgimenti, che sono frutto di una perspicace lettura della partitura, come mettere nella giusta luce piccoli eppur decisivi tocchi di colori oscuri e armonie inquiete, scegliere i tempi giusti e dare tensione alle pause. Il risultato si avverte chiaramente già nella Sinfonia ma Abbado ha modo di far valere ancor più questa sua prospettiva quando il sipario si apre su una vicenda molto drammatica e molto cupa, che consiste in una serie di topoi che sarebbero poi tornati con una certa frequenza nel melodramma romantico: ne è un esempio l’irruente e drammatico arrivo di Falliero durante il matrimonio a cui Bianca è stata costretta dal padre Contareno, seguito da un momento di sospensione, che sfocia in un grande concertato carico di tensione, proprio come nella Lucia di Lammermoor, di sedici anni successiva.
La struttura di alcuni altri pezzi di Bianca e Falliero non ha confronti, come la grande scena di Falliero nel secondo atto, che per l’ambientazione ricorda le tante arie “in catene” o “di prigione” del Settecento e dell’Ottocento, fino al primo Verdi, ma va oltre i vecchi modelli di “cavatina” e “aria”, con cui Rossini stesso la definì, e si sviluppa come un lungo monologo interiore fuori dagli schemi, articolato in varie sezioni concatenate, scandagliando ogni angolo dell’animo di un uomo che si trova in una situazione a dir poco difficile e drammatica. Da una parte questa grande scena ha un colore già romantico ma dall’altra è ancora legata al passato: è infatti una delle ultime volte che a dar voce ad un giovane eroe innamorato è un contralto. In questo caso era Aya Wakizono, che - a dire il vero - non è un autentico contralto: la sua voce è gradevole ma piccolina, è ben impostata ma non si espande, è espressiva ma non ha lo slancio necessario nei momenti di accensione lirica o drammatica. Tuttavia nella citata grande scena di Falliero - che si muove principalmente nel registro centrale, senza scendere troppo per le possibilità della Wakizono, ma semmai salendo al registro sopranile - la sua interpretazione è interiorizzata e intensa e ci regala uno dei momenti più coinvolgenti della serata.
A interpretare il ruolo della protagonista femminile è Jessica Pratt, garantita come vocalista ma non come rossiniana. Usa ed abusa della sua tecnica virtuosistica, aggiungendo abbellimenti ed acuti estranei all’autentico stile rossiniano, che tuttavia le guadagnano gli applausi entusiastici del pubblico, convinto che una nota acuta valga molto più delle altre note. Passa così inosservato il suo registro centrale piuttosto debole. Gli acuti stessi sono facili e splendenti ma diventano aperti, aspri e talvolta lancinanti, se raggiunti di salto. Come disse Rossini stesso, riprendendo niente meno che un verso di Petrarca (Sonetto n. 178 delle Rime), il bel canto è “il cantar che nell’anima si sente”, ma il canto della Pratt non arriva mai nell’anima.
Rossini affida la coppia di amanti a voci femminili, mentre per i ‘cattivi’ si serve - come a noi pare ovvio, ma all’epoca non lo era - di due voci maschili. Cappellio, pur dovendo adempiere al classico ruolo di rivale dei due ‘buoni’, ha una sua nobiltà d’animo, tanto che è proprio lui a salvare Falliero dalle ingiuste accuse: il basso Giorgi Manoshvili assolve al suo compito con stile e con voce di ottimo metallo. Dmitry Korchak è regolarmente ospite del ROF da quasi vent’anni e in tutti questi anni la limpida voce tenorile d’un tempo è diventata più robusta ma meno omogenea, a tratti anche aspra, ma è proprio quel che ci vuole per Contareno, perfido padre deciso a sacrificare la figlia Bianca ai suoi interessi. Nei ruoli comprimari si sono fatti valere Niccolò Donini (il doge Priuli) e Carmen Buendía (Costanza) nonché Claudio Zazzaro (Ufficiale e Usciere) e Dangelo Díaz (Cancelliere).
Non pervenuta la regia di Jean-Luis Grinda, che si avvaleva delle scene e dei costumi di Rudy Sabounghi. Non c’è molto da dire di questa regia piuttosto tradizionale, con alcune piccole idee che nelle intenzioni del regista avrebbero dovuto mettere un po’ di sale in uno spettacolo scipito e statico, senza riuscirci ma anche senza disturbare più di tanto.
Questa nuova produzione di Bianca e Falliero inaugurava non solamente il festival ma anche l’Auditorium Scavolini. È il vecchio palasport, che un tempo aveva già ospitato alcuni spettacoli del festival e che ora è stato ristrutturato e riaperto dopo due decenni di chiusura, senza che sia molto cambiato: è ancora un po’ triste e scomodo ma almeno ha una buona acustica.
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