Turandot tra le risaie

Allo Sferisterio di Macerata il nuovo allestimento della incompiuta pucciniana

Turandot Sferisterio di Macerata (foto Simoncini)
Turandot Sferisterio di Macerata (foto Simoncini)
Recensione
classica
Macerata, Sferisterio – Macerata Opera Festival
Turandot
19 Luglio 2024 - 10 Agosto 2024

Il Macerata Opera Festival celebra il centenario pucciniano con due titoli: La bohème, nella fortunata produzione  del regista Leo Muscato, vincitrice del 32° Premio Abbiati 2012, allestita allo Sferisterio nel 2012 e 2015, e Turandot, in un nuovo allestimento in coproduzione con l’Opéra Grand Avignon. 

Spettacolo molto bello, grazie alla regia e alle scene di Paco Azorin, alle luci e video di Pedro CHamizo e agli interpreti vocali diretti da Francesco Ivan Ciampa, sul podio della FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana.

Si può condividere o meno lo spirito di denuncia sociale che anima le scelte di Azorin, espresso attraverso la netta contrapposizione tra il popolo, colpito da malattie e soprusi e chino a lavorare nelle risaie, Calaf e Timur emblemi di tutti i rifugiati clandestini, e i privilegi dell’aristocrazia; in ogni caso lo spettacolo funziona e la drammaturgia non ne risulta stravolta, le scene hanno un forte impatto visivo grazie al sapiente uso delle luci che esaltano colori e forme, suggeriscono atmosfere e creano presagi. La contrapposizione tra classi sociali si concretizza  sia nelle strutture scenografiche che nei costumi disegnati da Ulises Mérida: rievocanti le architetture  orientali e sovrastanti le risaie le prime,  e simbolicamente caratterizzanti i secondi, anche attraverso i colori pastello del popolo, il blu degli abiti dei tre esuli   e il rosso e oro dell’aristocrazia.

Turandot Sferisterio di Macerata (foto Simoncini)
Turandot Sferisterio di Macerata (foto Simoncini)

Riusciti anche i movimenti scenici di Carlos Martos de la Vega, in particolare le donne -arcieri che accompagnano sempre Turandot e che funzionano da moltiplicatori della sua crudeltà; la principessa, che ha le posture di una bambola cinese tradizionale e i tre ministri che aprono il secondo atto con eleganti movimenti di Tai Chi. La più vistosa deviazione dal libretto è stata la tortura al principe di Persia, trafitto da lance e lungamente agonizzante,  prima dell’ esecuzione capitale, tanto per enfatizzare il clima di terrore e crudeltà della corte cinese. 

Nella compagnia di canto hanno spiccato la solida e bella voce di Angelo Villari, molto a suo agio nella parte di Calaf, reso con intensità e calore; Ruth Iniesta, delicatissima e commovente Liù, capace di pianissimi che Ciampa ha saputo valorizzare con il perfetto controllo delle dinamiche orchestrali. Turandot è stata Olga Maslova, anche  lei presenza molto gradevole per lo smalto della voce e le capacità attoriali, e Timur  Antonio di Matteo, che ha interpretato il vecchio re cieco con voce affaticata e in taluni momenti spenta, straordinariamente calata nel personaggio. Molto bene il resto della compagnia, in particolare i tre ministri, di cui per fortuna non si è enfatizzato il tono caricaturale, interpretati da Lodovico Filippo Ravizza (Ping) Paolo Antognetti (Pang) Francesco Pittari (Pong) e  il mandarino di Alberto Petricca che ha aperto l’opera con piglio sicuro. Non del tutto convincente l’imperatore di Christian Collia, intonato ma carente nel volume vocale, specie nel grave. 

Di qualità la prova del coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”, preparato da Martino Faggiani, e dei Pueri Cantores “D. Zamberletti” diretti da Gian Luca Paolucci.

Turandot Sferisterio di Macerata (foto Simoncini)
Turandot Sferisterio di Macerata (foto Simoncini)

Francesco Ivan Ciampa ha guidato l’orchestra con perizia e gestualità molto chiara ed efficace, creando una tessitura sonora  dai colori accesi e dalle dinamiche estreme, sempre con grande attenzione, come si è accennato, all’equilibrio sonoro tra voci e strumenti.

Unico neo della serata, l’ennesimo tentativo di concludere (malamente) un’opera incompiuta. Che l’Associazione Arena Sferisterio aveva preannunciato appunto come tale, ma  dopo la morte di Liù, la proiezione del ritratto del compositore sul muro del teatro e della celebre frase di Toscanini alla prima della Scala nel 1926, e dopo l’applauso del pubblico, si vede il direttore alzare di nuovo le braccia e ridare l’attacco.  Una “coda” cantata dal coro che intona l’inno “O sole! Vita! Eternità!” senza funzione alcuna e completamente decontestualizzato.

Pubblico come al solito numerosissimo e applaudente per l’entusiasmo anche sopra l’orchestra.

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