I grandi della musica da camera a Classiche Forme
Al festival di Lecce due concerti con la formula vincente dell’incontro tra solisti
Due concerti di Classiche Forme – meglio noto come “il festival di Beatrice Rana” – selezionati un po’ per scelta e un po’ per caso si sono rivelati due bellissime esperienze, come sempre avviene in questo Festival Internazionale di Musica da Camera. Il programma della prima sera nel Chiostro del Rettorato, che è la sede principale del festival leccese, era intitolato “Affetti popolari”, in quanto imperniato su due composizioni di due grandi del secondo Ottocento, che prendevano spunto dalla musica popolare, con qualche differenza tra loro: Edvard Grieg si ispirava regolarmente alla musica tradizionale della sua Norvegia, con i connessi sentimenti e ricordi personali, mentre Johannes Brahms saltuariamente riprendeva l’esotica musica “alla Zingarese”, che andava di moda all’epoca ma aveva ben poco di autenticamente popolare ed era suonata dalle orchestrine dei cosiddetti gitani per allietare gli avventori dei caffè e dei ristoranti. Ma entrambi si appropriano del materiale musicale di partenza, lo inseriscono in architeture musicali complesse e lo trasformano - soprattutto Brahms - in qualcosa di completamente diverso.
Di Grieg si è ascoltata la Sonata n. 3 in do minore per violino e pianoforte op. 45, che appartiene alla sua piena maturità e colpisce per la viva espressione e la profonda emozione con cui presenta alcune melodie norvegesi, il più delle volte melanconiche, come spesso è la musica popolare del nord dell’Europa. Oggi tali melodie colpiscono meno della pregnanza e dell’originalità dell’armonia, dell’interesse dello sviluppo tematico, che apre squarci di bella tensione drammatica, e dalla novità della forma, che non sempre hanno un ruolo così importante nella musica di Grieg come in questa Sonata. I due strumenti si lanciano in un dialogo spontaneo e libero, ma danno grande rilievo anche alla raffinatezza con cui Grieg tratta questo semplice materiale di partenza.
La violinista coreana Hyeyoon Park e il pianista britannico Benjamin Grosvenor sono due ottimi solisti ma come cameristi sono ancora migliori. Lei aggiunge al timbro puro e luminoso del suo violino quell’eleganza e quella delicatezza orientali, che purtroppo altri musicisti dell’estremo oriente hanno smarrito. Lui trae dal pianoforte un suono nitido e brillante e pone la sua tecnica ineccepibile al servizio della musica, sia mettendo in chiara luce ogni dettaglio sia infondendovi intensa ma controllata espressione, sempre evitando ogni sentimentalismo ed esibizionismo: insomma un vero camerista.
A loro si sono aggiunti il violista Georg Kovalev e la violoncellista Ludovica Rana per eseguire il Quartetto n. 1 in sol minore per pianoforte e archi op. 25 di Brahms. È un’opera giovanile, scritta a ventotto anni, ma già mostra la robustezza e la sapienza costruttiva del compositore, che nell’ultimo movimento si concede anche uno “Rondò alla Zingarese” scatenato, ma scritto unendo grande maestria alla pittoresca inventiva. Ne abbiamo ascoltato un’interpretazione che ci ha riportato allo spirito della musica da camera, quando non esistevano o erano rarissimi gli ensemble stabili come quelli odierni, che preparano a lungo l’esecuzione, la fissano in ogni dettaglio e poi la ripetono pressoché identica in ogni concerto, per dieci, venti, cento volte. Originariamente la musica da camera era invece l’incontro spesso fugace tra musicisti, possibilmente eccellenti e con delle affinità elettive tra loro, come in questo caso, che provavano il pezzo ma nell’esecuzione portavano ognuno la propria personalità e - perché no? - un pizzico di invenzione estemporanea e d’improvvisazione, che in musica non è affatto sinonimo di approssimazione. Ritornare a qullo spirito oggi non è facile ma, se e quando succede, ne nascono interpretazione più vive e meno meccaniche, come questa: per tentare di definirla vengono in mente aggettivi che di solito si usano per una persona amica, come cordiale, comunicativa, sincera, generosa. Con in più, in questo caso, la bellezza del suono che possono avere quattro solisti.
Per il concerto seguente il festival si è trasferito a trenta chilometri da Lecce, nel suggestivo castello di Corigliano d’Otranto. Inizialmente si è ascoltato il Duetto per violoncello e contrabbasso, un ampio e poco noto pezzo in tre movimenti scritto dal trentaduenne Rossini nel 1824. Certamente non è soltanto perché si è suggestionati dal nome che vi si riconoscono caratteri operistici. Il titolo stesso è esplicito: non Duo ma Duetto, e in effetti la vivacità e gli ammiccamenti con cui i due strumenti dialogano, scambiandosi brevi e vivacissime frasi, ricorda un duetto buffo, soprattutto nell’Allegro iniziale, mentre l’Andante è più distesamente cantabile e il finale è anche qui un Allegro zingarese, sebbene non sia facile immaginare compositori più diversi di Brahms e Rossini. Il violoncellista Aleksey Shadrin e il contrabbassista Giorgio Magistroni hanno suonato questo pezzo tutt’altro che facile in modo impeccabile ma anche con humour e con qualche spiritoso accenno di recitazione.
Si passava poi al Settimino in mi bemolle maggiore op. 20 di Beethoven, che nei primi anni dell’Ottocento fu uno dei suoi lavori più noti e apprezzati e ne propagò il nome anche in quegli ambienti che non erano pronti ad accettare la novità dei suoi capolavori successivi. È in effetti un pezzo assolutamente disimpegnato, che nella forma e nel carattere ricorda i Divertimenti e le Serenate del Settecento, che in effetti è il secolo cui il Settimino appartiene anche per la cronologia, essendo stato iniziato negli ultimi mesi del 1799. È costituito dai quattro movimenti classici della sinfonia, dei quartetti e della altra musica da camera, tra cui, come in alcuni pezzi dello stesso genere di Mozart, vengono inseriti un secondo Minuetto – in questo caso uno Scherzo, che allora stava cominciando a prendere il posto del Minuetto – e un Tema con variazioni.
Oggi lo si ascolta raramente, anche perché è complicato mettere insieme l’insolito organico strumentale richiesto. In questo caso si sono ascoltati sette ottimi musicisti: ai due già ascoltati in Rossini si sono aggiunti Liya Petrova (violino), Giuseppe Russo Rossi (viola), Annelien Van Wauve (clarinetto), Andrea Cellacchi (fagotto) e Mirko Landoni (corno). Lo spirito è quello della musica d’intrattenimento settecentesca e rivela come Beethoven, oltre ad essere un genio, avesse anche un ottimo ‘mestiere’, che gli permetteva di scrivere musica ben fatta, brillante, ricca di spunti originali ma non particolarmente innovativi e totalmente priva della dialettica drammatica che caratterizzerà i suoi capolavori degli anni successivi. Anche il ruolo di primo piano e quasi concertante di alcuni strumenti è tipico del vecchio stile: nel Settimino questo privilegio spetta innanzitutto al violino e in second’ordine al clarinetto, suonati con grande ‘spolvero’ e con slancio dalle due interpreti, che però qua e là hanno dato a l Settimino un vigore che non si confà pienamente a questo Beethoven. In qualche momento vengono in primo piano anche il corno e il fagotto, che erano affidati a due ottimi strumentisti, rispettivamente corno di fila dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia e primo fagotto della Royal Concertgebouw Orchestra di Amsterdam: da sottolineare la purezza e morbidezza straordinarie del suono che Landoni ricavava da uno strumento difficilmente controllabile e spesso brusco e invadente qual è il corno.
Il pubblico italiano e internazionale dei due concerti non ha lesinato gli applausi, meritatissimi.
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