Nell’autunno dell’esistenza
Düsseldorf: Septembersonate, la nuova opera da camera di Manfred Trojahn
Ha cinquantasei anni Osbert Brydon quando torna nella New York, che aveva lasciato a ventitré anni, allontanandosi da una famiglia di speculatori immobiliari per inseguire il suo sogno di bellezza nella vecchia Europa. Bestia nera in una famiglia di capitalisti rampanti, nell’autunno della propria esistenza torna da scrittore di successo nella casa che lo ha visto crescere, rimasta ormai vuota, e si confronta con i fantasmi del passato, fra questi anche quello di Ellice Staverton, e soprattutto con il fantasma di se stesso, cioè di ciò che sarebbe potuto essere se non fosse fuggito da quella casa oltre trent’anni prima.
Prende spunto dal lungo racconto The Jolly Corner pubblicato da Henry James nel 1908 nella English Review, la nuova opera da camera di Manfred Trojahn dal titolo vagamente bergmaniano,Semptembersonate, commissionata dalla Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf. Trojahn firma sia la musica che la riduzione a libretto del racconto originale, del quale dà rilievo soprattutto allo scandaglio interiore del protagonista a spese della storia di fantasmi, piuttosto consueto nella produzione dello scrittore americano. Curiosamente, in questo adattamento cambiano solo i nomi dei personaggi ma non i loro cognomi, e così Spencer è Osbert e Alice è Ellis. Inevitabile il rimando al Benjamin Britten di The Turn of the Screw ma anche a Owen Wingrave, non tanto per la comune fonte letteraria (magistralmente trattata da Myfanwy Piper per i due libretti britteniani) quanto per la scelta di un piccolo ensemble da camera come organico strumentale. Rispetto a Britten, tuttavia, Trojahn sceglie anche un organico ridotto ma dalla timbrica omogeneamente cupa: tre viole, tre violoncelli e un contrabbasso per gli archi, un flauto contralto, un corno inglese, un clarinetto basso, un controfagotto e un corno per i fiati, oltre alle percussioni, all’arpa e alla celesta che proiettano umori spettrali sulla trama sonora. Anche il trattamento musicale dei 90 minuti del lavoro, organizzati in sei scene “chiuse”, è piuttosto uniforme, compreso nella “scena della follia” (definizione dell’autore), la quinta, in cui il flusso sonoro viene spezzato in una successione di suoni staccati. Quel che manca però è un gioco di contrasti e un climax, sia sul piano drammaturgico che su quello musicale, che dia corpo a quello che, in buona sostanza, si può definire come “flow of consciousness” di un artista in piena crisi di identità, aperto a qualsiasi lettura e sostanzialmente irrisolto.
Cercare una soluzione spettacolare a una lunga meditazione interiore non era facile, ma Johannes Erath sfrutta astutamente il richiamo al piccolo teatro di marionette del giovanissimo Osbert, rievocato nella terza scena dalla governante Mrs. Maldoon, per proiettare la psiche di Brydon su un mondo di segni ostentatamente teatrali. La smaterializzazione di precise coordinate spaziali e il sovrapporsi dei piani temporali vengono realizzate efficacemente attraverso proiezioni su sipari semitrasparenti (le immagini video sono di Bibi Abel) e squarci scenografici di segno realistico (la scenografia è di Heike Scheele, mentre il sofisticato disegno luci di Nicol Hungsberg) che, come in un sogno, vengono deformati spesso in immagini indecifrabili quando non inquietanti, come l’imponente scalone di quell’angolo felice nella New York asfissiata dai grattacieli decomposto in prospettive quasi escheriane. È così anche per le presenze che abitano quelle immagini prodotte nella coscienza di Brydon, tutti personaggi di un teatro della memoria, dei quali protagonista assoluta è Ellis Staverton, creatura femminile dall’identità sfuggente e proiezione multiforme di un immaginario letterario o cinematografico, come i suoi diversi costumi e parrucche vogliono raccontare, che Brydon ha verosimilmente modellato nella propria mente come donna ideale.
Protagonista quasi unico di questo lavoro è Holger Falk, affidabile più che introspettivo, un po’ in affanno nel registro acuto, meno intrigante del suo doppio, che è Roman Hoza, per lo più presenza muta fino al sottofinale, quando finalmente si esprime nella resa dei conti con l’altro se stesso. Ellice Staverton è Juliane Banse, presenza immateriale e cangevole in scena e purtroppo muta, causa malanno stagionale, con soccorso dell’ultimo minuto di Elena Fink, che le presta la voce dal lato del palcoscenico. Susan Maclean assolve degnamente al piccolo ruolo di Mrs. Muldoon. L’esecuzione musicale dei Düsseldorfer Symphoniker è guidata da Vitali Alekseenok con grande controllo e precisione.
Questa produzione di qualità sfortunatamente non è stata ripagata dall’attenzione del pubblico, molto scarso già alla terza recita in cartellone all’Opernhaus di Düsseldorf. Qualche fuga in corso d’opera, ma i pochissimi presenti, comunque, applaudono con convinzione.
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