Maschere danzanti al Percussions Festival
Dal mito all’elettronica, al Percussions Festival di Losanna il ritmo ha il volto nascosto
Alla seconda edizione, il Percussions Festival International di Losanna ha in buona misura mostrato di aver fatto tesoro degli inconvenienti verificatisi al debutto. Trasloco dalla rovente stagione estiva all’autunno bagnato, programma più organico e aderente al tema della rassegna, palcoscenici funzionali agli spettacoli proposti, capacità di attrarre un pubblico diversificato che, riempiendo le sale, ha mostrato di gradire le scelte artistiche di Bart Favre e del suo staff.
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Al centro del cartellone la Royal Academy Of Performing Arts del Bhutan, istituita nel 1954 per mantenere vive le tradizioni culturali di un paese, adagiato tra India e Tibet, a lungo chiuso alle influenze esterne. Le loro coreografie hanno carattere sacro e sono condotte al fine di indirizzare l’uomo verso la “liberazione”, attraverso lo svelamento delle forze presenti nell’universo e in ciascun essere. Tali forze incarnano simbolicamente le divinità tantrico-buddiste e trovano raffigurazione in danze intese a dare corpo alle visioni di un antenato.
La rappresentazione vista sul palco dell’Opéra di Losanna, appartenente al genere Drametse Ngacham (“danza in maschera dei tamburi di Drametse”, villaggio del Bhutan orientale), rinviava appunto al sogno di un uomo che visitava il palazzo del guru Padmasambhava, assisteva alle danze di esseri celesti e al risveglio ricordava nel dettaglio le musiche, i costumi, le maschere e le evoluzioni dei danzatori.
L’incantamento procurato dai sedici artisti – entrati in scena uno alla volta a formare progressivamente un cerchio in movimento perpetuo per quasi cinquanta minuti – è stato indubbio. Avvolti in vestiti dai colori variopinti e sgargianti, con indosso grandi e splendide maschere dalle fattezze di animale, percuotevano con un bastone ricurvo un tamburo nga chen, sotto gli stimoli dell’unico che batteva due rim (cembali) a scandire i tempi della performance.
Altri due strumentisti, pressoché immobili in un angolo, procuravano un bordone gorgogliante grazie ai loro lunghi corni detti dung, a completare il background sonoro di una cerimonia rituale in cui accanto alla concentrazione spirituale traspariva la necessità di uno sforzo fisico non indifferente.
A introduzione della serata gli stessi danzatori avevano eseguito, privi di maschere e tamburi e in abiti dimessi, una più breve coreografia dalle suggestive forme geometriche, accompagnandosi a tratti con il canto, poi seguiti dall’interpretazione di un brano di taglio folk per voce e liuto drangyen a cura di Pema Samdrup, uno degli insegnanti dell’Accademia. A riprova che, oltre alle sonorità per coltivare l’elevazione mistica, anche in Bhutan, come in ogni parte del mondo, non è mai mancata la musica terrigna e quotidiana.
Visti e sentiti la sera prima al D! Club, i Makoto San, quattro marsigliesi in incognito con al momento una manciata scarsa di tracce su Bandcamp, ci hanno regalato sensazioni gustose. Anche loro indossavano maschere, prossime a quelle impiegate dagli schermidori, e giacconi con cappuccio alla stregua di monaci futuristi. Nel live sono riusciti a coniugare con garbo e inventiva loop electro e percussioni asiatiche che dicono di aver studiato a fondo, come i tamburi giapponesi taiko e gli angklung indonesiani, oltre a misurarsi con lame di bambù di varie dimensioni.
È una musica del tutto desacralizzata, energica e sufficientemente grezza per via delle secche sonorità regalate dagli strumenti in bambù, a cui si aggiungono un riconoscibile french touch e le suggestioni di un minimalismo in chiave dance di grana fine. Più che ballare il pubblico ciondola la testa, si abbandona all’immaginazione e si culla in una trance soave.
Altre maschere, questa volta dai colori fluo e dai tratti afro, hanno celato le facce dei colombiani Ghetto Kumbé, sulle scene dal 2015 e con alle spalle un paio di ep e un album senza titolo nel 2020 (remixato con successo l’anno scorso da dj di grido).
L’onda d’urto procurata al giovedì ai Docks da Edgardo Garcés, Juan Carlos Puello e Andrés Mercado è stata senza dubbio potente, figlia di una techno-house immersa nel primitivismo arrecato da percussioni suonate in maniera brutale. In estrema sintesi, è il famoso sonido afrocaribe espresso nella forma meno industriale e annacquata che possa esistere. In più, i testi dei brani non nascondono intenti politici, con richiami alle ingiustizie sociali, all’etica malsana del capitalismo e alla necessità di rialzare la testa per rivendicare una vita dignitosa. Folta e vivace la rappresentanza di latinos in sala, giovani che pur non vivendo nelle periferie di Bogotá ne conoscono in tutta evidenza le dinamiche.
Ad aprire le danze era stata Suphala, tablista di origine indiana nata negli Stati Uniti, rintracciabile nei dischi di varie celebrità (Norah Jones, Nina Hagen, Yoko Ono, Vernon Reid, Timbaland, DJ Spooky). Un’artista che ha ritrovato in parte le proprie radici studiando con Zakir Hussain prima e con il padre di questi, la leggenda Alla Rakha, poi. Abbiamo potuto ammirarne la maestria tecnica nella masterclass da lei tenuta nel primo pomeriggio all’École de jazz et de musique actuelle, ma l’esibizione serale ci ha fatto riflettere su quanto la tradizione musicale classica dell’India goda sempre meno i favori di tanti musicisti che pure in quel contesto si sono formati.
Nel duo con la batteria elettronica di Currency Audio (Rajeev Maddela), Suphala ha faticato a integrare i suoi cicli ritmici (tāla) con l’insieme di drum’n’bass, dubstep e ambient proposto dal partner e per quanto piacevole e tinteggiato di esotismo il set è rimasto a galleggiare sulle acque di una fusion sì al passo con i tempi ma poco empatica.
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