RomaEuropa, gran finale in Africa
Chiude RomaEuropa nel segno della musica del continente africano: Ballaké Sissoko, Fatoumata Diawara e Bombino
Dopo oltre due mesi di fitta programmazione – tra musica, danza, teatro e non solo – il Romaeuropa Festival non poteva che concludersi allestendo una ricca sequenza di spettacoli nella medesima giornata: un “Gran Finale”, come ormai è consuetudine chiamarlo, che domenica scorsa ha invaso l’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone.
Anzi, per esser precisi, ha causato una pacifica invasione di spettatori, arrivati da metà pomeriggio e rimasti fino a tarda sera per assistere a quattro eventi, dedicati quest’anno ad artisti provenienti dal continente africano.
Preceduti da Re:incarnation, spettacolo di danza ideato dal nigeriano Qudus Onikeku che già aveva debuttato la sera precedente, i tre concerti proposti in successione nei diversi spazi dell’auditorium romano hanno infatti portato in primo piano artisti, già noti al pubblico italiano, legati in vario modo alle molte tradizioni che l’immensa Africa continua a custodire e ad alimentare.
Molto suggestiva l’interazione tra la kora di Ballaké Sissoko e l’elettronica gestita da Lorenzo Bianchi Hersch che ha caratterizzato il primo concerto, Radicants, ospitato nel Teatro Studio Gianni Borgna, cornice sicuramente appropriata viste le sue dimensioni più raccolte e l’atmosfera un po’ tenebrosa che lo contraddistingue quando le luci in platea sono spente.
Col suo strumento Ballaké si è ampiamente confrontato col compositore e sound artist milanese, dando vita a un gioco in cui di volta in volta è stato il musicista maliano a fissare il punto di partenza della creazione elettronica, o viceversa a inserirsi su quest’ultima con le proprie magistrali improvvisazioni. Complici il talento virtuosistico di Ballaké e le sonorità cristalline della kora, di cui Lorenzo Bianchi si è pure giovato inserendole nel flusso sonoro generato al computer, il risultato è stato quello di un continuum sicuramente affascinante e coinvolgente per il pubblico. Anche se in qualche modo si è sentita la mancanza di una narrazione generale che guidasse la performance dei due artisti, una carenza che si inizia ad avvertire quando non ci si accontenta più del mero incontro tra uno strumento musicale e l’elettronica, sia pure affidati ad artisti di indubbia capacità.
Il Romaeuropa Festival ha dotato il suo Gran Finale anche di un grande crescendo: attesissimo dal pubblico, il successivo appuntamento con Bombino – alias Goumar Almoctar, nato e cresciuto in Niger nella tribù dei tuareg Ifoghas – ha infatti ripagato in pieno tutte le aspettative. Il suo composito desert blues, che il musicista ha pure definito Tuareggae, ha ammaliato la platea con le sue sonorità scintillanti. Allo stesso tempo, ha coinvolto gli spettatori in quei temi che raccontano i problemi, le difficoltà, le tristezze che ancora affollano il continente africano.
Sul palco insieme a musicisti di grande valore, fra i quali spiccava l’incontenibile Corey Wilhelm alla batteria, Bombino ha proposto molti brani dal suo ultimo album Sahel e dal precedente Deran. Sotto le sue dita la chitarra si conferma un instancabile motore propulsivo per questa musica, mentre la voce conferisce un’incredibile energia ai testi di canzoni che continuano a parlare di amore e di dolore, di libertà e di amicizia.
Forse più vicino ai gusti europei e nordamericani rispetto ai Tinariwen, il blues di Bombino combina in modo sorprendentemente efficace armonie occidentali e tradizioni della musica tuareg. Il pubblico romano ha potuto apprezzarlo a pieno, malgrado le caratteristiche della Sala Sinopoli impedissero ai più di stare in piedi per assistere a una performance che invitava necessariamente al libero movimento, e che dunque avrebbe avuto più senso ospitare in una sede priva delle comode, ma in questo caso inutili, poltrone rosse.
Non saranno inoltre sfuggiti a tutti alcuni problemi legati all’amplificazione, visto che più volte la voce di Bombino è stata letteralmente sommersa dai suoni della batteria (soprattutto dal charleston) e che per trovare un equilibrio, anche tra le chitarre, sono stati stati necessari continui e fin troppo evidenti aggiustamenti di volume.
Ulteriori problemi – ancora legati all’amplificazione – hanno segnato l’inizio dell’ultimo appuntamento della serata, quello con Fatoumata Diawara, che addirittura ha dovuto fermare quasi subito la musica, intrattenendo gli ascoltatori a partire dalla sua relazione con il nostro Paese (è sposata con un italiano, Niccolò Tomaselli), mentre sul palco della Sala Santa Cecilia un tecnico andava e veniva cercando di risolvere la situazione.
A Diawara sono bastati tuttavia pochi minuti per far dimenticare a tutti l’inconveniente. Nella sua musica confluiscono le tradizioni africane, soprattutto quelle della Costa d’Avorio e del Mali, dove ha trascorso la propria infanzia, e le influenze più disparate provenienti dal rock, dal jazz, dal pop. Insomma si può parlare, stavolta letteralmente, di world music. La cantante ha poi ringraziato, a cominciare dal Romaeuropa Festival, tutti coloro che lottano per diffondere la cultura e le arti, ha fatto un sentito appello alla pace nel mondo, invitando a rispettare le differenze tra gli individui, prima di passare ai temi che caratterizzano i testi delle sue canzoni.
Brani, dove pure tornano prepotenti i diritti delle donne africane, tratti dall’album Fenfo e soprattutto dal suo ultimo London Ko. Beninteso, il titolo non allude ad alcuna sconfitta al tappeto, bensì contrae in Ko il nome della capitale del Mali – Bamako – e prepara un lungo viaggio musicale: quello che la musicista ha compiuto dalla terra inglese fino a quella d’origine. Ogni fermata di questo viaggio apre orizzonti sonori diversi, si può parlare di volta in volta di afro-pop, afro-jazz, ma Diawara in realtà riesce a osservare tutto da una posizione sopraelevata, capace di mediare grazie alle indiscutibili doti vocali di cui dispone, oltre che al carisma che emana quando si presenta con i suoi coloratissimi abiti.
Anche in questo Gran Finale del Romaeuropa Festival, una bella testimonianza di quell’invito al dialogo tra arti e culture provenienti da luoghi estremamente diversi e lontani che ha caratterizzato l’edizione 2023, non a caso dedicata alle “Geografie del nostro tempo”, e ha reso quello della Capitale il luogo privilegiato per questo confronto.
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