Roma Jazz Festival, inseguendo il pubblico
Tony Levin, le "novità" e la difficoltà delle sale da concerto a Roma
Che vi sia una logica da bookmaker nello scegliere la location dei vari eventi di un festival musicale, questo – non solo a Roma – è un dato di fatto incontrovertibile. Pur mettendo da parte la variabile del costo del biglietto, è chiaro che per un determinato concerto si preferirà una sede più o meno grande e/o prestigiosa in base alle aspettative di affluenza del pubblico.
Il Roma Jazz Festival non fa certo eccezione e anche per questa sua 47ma edizione ha seguito necessariamente questa logica nel collocare i suoi ben ventitré appuntamenti, scegliendo fra l’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone”, la Casa del jazz e il Monk.
Quest’ultimo in realtà è stato relegato al ruolo di fanalino di coda, due soli concerti, uno dei quali (lo scorso 5 novembre) con protagonista il poliedrico MonoNeon, incredibile nel combinare soul, funk ed elettronica con un look visivo quanto mai appariscente.
La parte del leone la recita ancora una volta il Parco della Musica “Ennio Morricone”, mentre la Casa del jazz è stata lasciata un po’ in disparte, penalizzata evidentemente dalle ridotte dimensioni del suo auditorium: pochi i suoi 150 posti, in rapporto all’ampio spazio esterno che può essere sfruttato solo durante la stagione estiva.
L’edizione 2023, che si è aperta lo scorso 2 novembre e si concluderà il prossimo 26 novembre, porta il titolo di “Transition” e nelle intenzioni del direttore artistico Mario Ciampà intende dar conto di una realtà musicale in continua trasformazione, dove «la linea di demarcazione tra jazz, musica elettronica, musica contemporanea, musica popolare, rap o pop è diventata sempre più sottile e sfumata».
«Gli artisti dell’avanguardia contemporanea – come ha sottolineato Ciampà – stanno creando una fusione unica in costante divenire che sfida le convenzioni e non ha paura di evolvere verso qualcosa di nuovo».
La domanda è però quanto questo "qualcosa di nuovo" riesca ad arrivare al pubblico quando si devono fare i conti un po’ con la citata logica dell’allibratore e un po’ con i limiti che Roma offre quanto a spazi: l’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone” è infatti ormai il centro che, soprattutto durante la stagione invernale, attira a sé la maggior parte degli eventi musicali. Che in una città con tre milioni di abitanti vi sia solo una struttura come il Parco della Musica è veramente un limite, basterebbe fare un confronto con la situazione nelle altre principali capitali europee per rendersi conto del problema.
Che in una città con tre milioni di abitanti vi sia solo una struttura come il Parco della Musica è veramente un limite, basterebbe fare un confronto con la situazione nelle altre principali capitali europee per rendersi conto del problema.
Tra gli eventi che finora si sono svolti, accanto agli appuntamenti con i grandi nomi come quelli di John Scofield, Judith Hill e Avishai Cohen, che si sono esibiti nella Sala Petrassi (ex Sala 700, quelli all’incirca i posti per gli spettatori), forse il "nuovo" di cui parlava Ciampà è stato veicolato piuttosto da concerti come quello del pianista sudafricano Nduduzo Makhathini, per il quale la scelta tuttavia è caduta sul Teatro Studio Gianni Borgna, capienza trecento posti.
Aria nuova anche negli eventi che si sono svolti (o che si svolgeranno) alla Casa del Jazz, uno in particolare vorremmo segnalare, quello del Carlsson Kotača Trio, giovanissima formazione composta da musicisti provenienti dalla Svezia, dalla Repubblica Ceca e dalla Slovacchia, che si è presentata al pubblico romano lo scorso 10 novembre. Nella musica di Alf Carlsson alla chitarra; Jiří Kotača alla tromba e al flicorno, Kristián Kuruc alla batteria (un vero fuoriclasse, impegnato anche con i pads) – i loro paesi d’origine sono nell’ordine quelli indicati prima – una ventata di fresca energia nella quale i tre hanno saputo inserire la suggestione di alcune melodie tradizionali dei rispettivi paesi. Capaci di creare una trascinante tensione ritmica oppure di intensificare la profondità espressiva dei canti nordici, i tre hanno portato sapori un po’ diversi da quelli ai quali siamo abituati nel nostro paese.
Se il jazz contemporaneo è diventato un materiale estremamente malleabile che ciascuno può plasmare in base alla propria sensibilità individuale, allora è un bene poter accedere al diverso approccio di artisti appartenenti ad altre culture. Il concerto – davvero molto piacevole, realizzato in collaborazione col Centro Ceco di Roma – è stato però in qualche modo penalizzato dalla collocazione alla Casa del jazz, che oltre a contenere un pubblico ridotto si trova in tutt’altra zona di Roma rispetto al Parco della Musica. E non è cosa da poco, considerati i problemi di traffico della Capitale.
Analogo discorso potrebbe esser fatto per altri due appuntamenti che pure si sono svolti alla Casa del jazz: quello dello scorso 12 novembre dedicato ai vincitori del contest Lazio Sound 2023 (il progetto multistilistico “Conversessions”) e quello che ha visto protagonista Ilaria Capalbo (il 17 novembre), una delle musiciste più interessanti della nuova generazione.
Non si può parlare certo di nuove generazioni viceversa per un altro concerto che abbiamo seguito, quello degli Stick Men, ovvero Tony Levin, Pat Mastellotto e Markus Reuter. Gruppo che nel nome scelto allude al particolare strumento imbracciato dallo stesso Levin, il Chapman Stick (Emmett Chapman lo ha inventato negli anni Settanta), doppio strumento con le corde della chitarra e quelle del basso che può essere suonato con la tecnica del tapping.
Per un festival jazz si è trattato evidentemente di un viaggio indietro nel tempo, alla riscoperta però non del jazz ma di un rock a metà strada tra il progressive e la psichedelia. I tre hanno proposto buona parte del loro ultimo album Tentacles, giocando molto sulle grandi capacità di improvvisazione.
Si tratta, ovviamente, di tre fuoriclasse: Reuter con la sua touch guitar, Mastellotto con la sua batteria (e alle prese con un sofisticato setup elettronico in grado di generare ulteriori effetti) e naturalmente Tony Levin, vero protagonista della serata. È emersa però anche una certa stanchezza creativa: se Levin e Mastellotto sembravano voler riportare in vita i fasti dei King Crimson di cui hanno fatto parte, i virtuosismi personali – di cui insieme a Reuter hanno fatto sfoggio – non sono riusciti ad aggiungere molto a quella storia.
Il pubblico romano è accorso tuttavia in massa – in fondo si trattava anche di andare ad ascoltare il celebre bassista di Peter Gabriel – e il Teatro Studio Gianni Borgna era pieno fino all’inverosimile, anzi straboccante. Forse è stata sottostimata l’affluenza del pubblico, ma considerate le valutazioni di cui abbiamo parlato all’inizio, valutazioni che obbligatoriamente chi organizza un festival deve fare scegliendo tra le opzioni disponibili, è davvero un peccato che a Roma non si riescano a trovare altri spazi – diciamo con una capienza tra i 200 e i 400 posti – idonei per ospitare simili spettacoli, per coprire non solo una minima porzione bensì tutto il vasto territorio della Capitale.
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