Alla Monnaie è iniziato il “Ring” di Romeo Castellucci
La tetralogia wagneriana è partita con un Rheingold tra luci e ombre
Facile visualmente ad apprezzarsi, con scene dai colori e linee eleganti, meno facile dare un senso a certe soluzioni registiche ed emozionarsi, e la mancanza di coinvolgimento fa fare presto capolino alla noia. Ed anche la parte vocale e musicale, pur con bravi interpreti e la direzione di un maestro di grande capacità ed esperienza come Alain Altinoglu, non decolla. Ma, come sempre a Bruxelles, il pubblico alla fine non ha fatto mancare gli applausi e i ringraziamenti agli artisti per il lavoro svolto. L’avvio del Rheingold è visivamente molto promettente, con un flusso verticale che scende dall’alto che ben rappresenta il Reno, le ninfe tutte ricoperte d’oro (interpretate da Eleonore Marguerre, Jelena Kordiç Christel Loetzsche) e il bravo baritono Scott Hendrickx al debutto nel ruolo di Alberich, nano che Castellucci presenta legato ad una trave in metallo sospesa, un riferimento al suo mestiere ma anche, ha spiegato il regista, alla pesantezza del suo essere brutto e rifiutato. Ma poi, quando Wotan e Loge lo fanno prigioniero, la ricerca estetica di Castellucci fa apparire Alberich, al contrario, un bel nudo dentro il cerchio-anello che possiede ma di cui è anche posseduto. Ed anche il colore della sua voce, da baritono chiaro piuttosto che di baritono-basso come di solito, lo rende assai più un bell’umano che un brutto nano. Wotan e Loge sono invece interpretati in modo più tradizionale rispettivamente dal basso baritono ungherese Gábor Bretz e dal tenore scozzese Nicky Spence, entrambi pure al debutto nel ruolo. Spence, una delle più belle voci in scena, in particolare, è perfetto per il ruolo del furbo semidio Loge che risolve il pasticcio creato da Wotan aiutandolo a prendere l’oro.
Anche se Romeo Castellucci stavolta è rimasto più fedele al libretto, non sovrapponendo altre storie a quella pensata dall’autore, alcune sue proposizioni visive della vicenda sono da interpretare: da quel disordinato deposito di museo d’arte antica, con un pavimento di corpi umani tra cui gli dei non riescono nemmeno a camminare, che sarebbe il magnifico palazzo; ai coccodrilli che pendono dall’alto accanto ai giganti, i bassi Ante Jerkunica (Fasolt) e Wilhelm Schwinghammered (Fafner), che servono a visivamente ad anticipare la figura del drago della seconda giornata e la morte di Fasolt è illustrata con uno degli animali che cade, infatti, per terra. Alcune soluzioni sono pure banalmente illustrative, come quando Castellucci fa entrare una fila di figuranti anziani nel momento in cui si parla dei frutti di Freia che donano la giovinezza agli dei, ma si sa che Castellucci ama lavorare anche con gente comune in scena. La giovane Freia e la sorella Fricka, moglie di Wotan, sono rispettivamente il soprano tedesco Anett Fritsch, che sarà poi Gutrune nella terza giornata, e il contralto canadese Marie-Nicole Lemieux. Adatta al ruolo e fa bene anche il mezzo Nora Gubisch come Erda, la veggente dea della terra. Doveroso citare anche, tra gli altri interpreti, il buon Mime del tenore inglese Peter Hoare.
In una regia dai movimenti molto coreografica anche per i cantanti, con una tale prioritaria attenzione per la bella immagine, la potenza dell’opera di Wagner finisce però un po’ per annegare nella ricerca estetica visiva. Il mix tra parole, immagini e musica non ha poi sempre funzionato anche a causa della nota acustica non uniforme della sala della Monnaie perché il maestro Altinoglu è sempre molto attento alle sfumature, anche d’intensità e di timbro dei diversi strumenti dell’orchestra, ma dove eravamo seduti noi, in fondo alla sala, i fiati si sentivano sproporzionati, sgradevolmente prevaricanti. I personaggi infine scompaiono, uno alla volta, gettandosi all’indietro in un buco nero a forma di anello che quindi finisce già per inghiottire tutti, ma invece appuntamento adesso alla Monnaie a fine gennaio per Die Walküre.
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