A Colonia una “Donna” di morte e rinascita
Un nuovo allestimento de “Die Frau ohne Schatten” di Richard Strauss apre la stagione dell’Oper Köln
Nonostante il grande impegno richiesto per metterla in scena, in questo avvio di stagione l’opera “monstre” di Richard Strauss e Hugo von Hofmannstahl Die Frau ohne Schatten sembra conoscere una rinnovata attenzione in Europa. Dopo lo straordinario “prologo” dei Berliner Philharmoniker e Petrenko allo scorso Festival di Pasqua di Baden-Baden, ben quattro teatri hanno scelto di aprire le proprie stagioni con quest’opera: Colonia, Lione, Vienna e Stoccarda.
Ha aperto la serie già in settembre l’Opera di Colonia, anche in questa stagione confinata nel periferico spazio fieristico dello Staatenhaus, mentre la riapertura del teatro di Offenbachplatz ancora non si vede all’orizzonte. In un contenitore antiteatrale come la Staatenhaus la scommessa di allestire un’opera ricca di effetti come la Frau ohne Schatten sembra una scommessa persa in partenza. Lo spettacolo firmato dalla regista Katharina Thoma, invece, aggira con intelligenza le limitazioni di quello spazio, qui abitato da una costruzione scenografica fissa di Johannes Leiacker – una sorta di piramide a gradoni, ammorbidita da linee curve, con un grande macigno in cima – con effetti creati dai sofisticati cromatismi nel disegno luci di Nicol Hungsberg e soprattutto dalle proiezioni video di Georg Lendorff sulle superfici bianche. La vicenda immaginata da Hofmannstahl, nella quale abbondano simbologie spesso oscure, viene presentata con la leggerezza profonda di una favola raccontata ai bambini, peraltro molto presenti nel gioco scenico, evitando l’oramai consueta tendenza a interpretare i simboli in letture a senso unico. Thoma, comunque, non rinuncia del tutto a qualche libertà esegetica specialmente nel terzo atto, il più astruso nel racconto di Hofmannstahl, che nel disegno della regista diventa una grande metafora di morte (con quella reale del tintore Barak che simmetricamente riflette quella simbolica dell’imperatore diventato di pietra) e quindi di rinascita. L’immagine del finale, timidamente ottimista e dunque piuttosto lontana dal trionfalismo coniugal-riproduttivo dell’opera, è quella di un bimbo che innaffia una piccola pianta sullo sfondo di un terreno crettato. Se ci sarà un domani, sarà grazie a un piccolo gesto.
Anche più complessa è la resa acustica in uno spazio privo di buca in un’opera che prevede un organico orchestrale ipertrofico. Anche in questo caso, con l’orchestra sistemata sul lato sinistro dello spazio destinato alla scena (ma anche in diversi altri anfratti per gli effetti spaziali), il risultato è più che soddisfacente grazie anche alla sapiente direzione musicale di Marc Albrecht, da anni in grande sintonia con il complesso mondo sonoro di Richard Strauss. Sotto la sua guida la Gürzenich Orchester fa mostra dell’infinita gamma di colori e di potenza di suono, ma sa anche raccogliersi in calde sonorità cameristiche e liberare il canto degli archi negli assoli di lirismo commovente. Il grande merito di Albrecht è nel grande equilibrio, mai facile, con le voci sulla scena, che arrivano al pubblico con plastica nitidezza in questa esecuzione. Si canta e senza forzature muscolari. In un cast vocale privo di eccellenze ma di apprezzabile tenuta, sono comunque notevoli le prove delle tre protagoniste, soprattutto di Lise Lindström, una sposa del tintore Barak, un po’ prudente nel primo atto, ma via via più autorevole nel disegno anche vocale del personaggio, mentre Daniel Köhler è meno risolta nella definizione del personaggio dell’Imperatrice e, come nutrice, Irmgard Vilsmaier sfoggia notevoli doti attorali ma la voce mostra qualche segno di usura. Altrettanto riuscite le prove dei due protagonisti maschili, Jordan Shanahan, un Barak sommessamente compassionevole, e AJ Glueckert, un imperatore poco eroico ma apprezzabilmente proiettato su una dimensione lirica. Nei numerosi ruoli minori, si distinguono il falco di Giulia Montanari anche per il rilievo nel disegno registico, il fantasmatico nunzio degli spiriti di Karl-Heinz Lehner, e il prestante, specie sul piano fisico, Bryan Lopez Gonzalez, l’apparizione del giovane, qui in versione gigolò al soldo della nutrice. Buone anche le prove dei tre fratelli deformi poco caricaturali di Ralf Rachbauer, Christoph Seidl e Insik Choi, così come gli altri ruoli minori. Il Coro dell’Oper Köln è impiegato in piccole formazioni piuttosto funzionali al disegno scenico, e i piccoli (e agili) cantori del Duomo di Colonia portano una ventata di infantile freschezza.
Il pubblico, non numeroso all’ultima recita del cartellone ma molto attento, tributa applausi calorosi a tutti gli interpreti con ovazioni per Albrecht.
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