L’abbagliante cupezza dei “Lombardi” in bianco e nero
Applausi per I lombardi alla prima Crociata con regia di Pizzi e direzione di Lanzillotta che ha inaugurato il XXIII Festival Verdi di Parma
Per il nuovo allestimento de I lombardi alla prima Crociata – che ha inaugurato al Teatro Regio di Parma il cartellone principale della XXIII edizione del Festival Verdi proponendo l’edizione critica curata da David R. B. Kimbell – Pier Luigi Pizzi ha immaginato un affresco scenico dall’eleganza lineare, immerso in un clima onirico distaccato e freddo, nettamente sbalzato sul fondale ora saturo di luce bianca – solcata all’inizio e alla fine da una sorta di ferita nera verticale che ricordava i tagli delle tele di Fontana – ora immerso in un’ombra profonda.
Un giuoco tra il bianco e il nero, tra poli estremi di presenza e assenza di luce, presenza e assenza di vita, presenza e assenza di bene, anche perché il “male” – il tentato fratricidio, il finto pentimento, l’aberrante parricidio, la guerra tra popoli, l’odio del diverso, l’estremismo religioso e tutto l’armamentario di ordinaria follia umana contenuto nel problematico libretto che Temistocle Solera ha tratto dal poema di Tommaso Grossi – appare come presenza scontata, ineluttabile, insita nella natura (umana, appunto) delle cose. Una presenza immanente, quella rappresentata dal male e incarnata nella morte, con la quale possiamo al limite provare a negoziare, magari assecondando un destino contorto che ci permette di espiare il nostro tremendo delitto trascinando una vita da eremita – e aspettando, nel caso, la provvidenziale benché terminale agnizione liberatoria – oppure, potendo scegliere, sfidando direttamente la Morte a scacchi.
Un parallelo, quello tra la figura di Pagano/Eremita e quella del nobile cavaliere Antonius Block, protagonista del film Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, che sorge spontaneo grazie a una serie di indizi: il bianco e nero netto e nitido che segna questo allestimento di segno cinematografico così come la pellicola del 1957, i costumi dei guerrieri lombardi che ricordano quello indossato da Bengt Ekerot nei panni della Morte nel film del regista svedese, il tema delle Crociate, che unisce il reduce Block ai lombardi guidati da Arvino. Se per Agatha Christie tre indizi fanno una prova, in questo caso ci limitiamo a parlare di suggestioni, anche perché Pizzi – che ha curato anche scene, costumi e video, coadiuvato dalle efficienti luci di Massimo Gasparon e dalle misurate coreografie di Marco Berriel – ha innestato nella sua narrazione scenica ulteriori e diversi elementi, spaziando da iconografie mariane ad architetture monumentali virate in una sorta di lineari rendering, fino ai costumi dai compatti e variopinti colori indossati dai personaggi appartenenti al Principato d’Antiochia (ai tempi della prima Crociata parte della Turchia e della Siria di oggi). Un insieme sicuramente originale e drammaturgicamente accattivante che, nel complesso, è stato segnato da un distacco espressivo che ha racchiuso l’azione melodrammatica in una sorta di elegante e raffinata grande teca posta di fronte al pubblico.
Una distanza espressiva rappresentata simbolicamente dalla grande pedana circolare posta al centro del palcoscenico, perno attorno al quale si srotolava l’azione e pulpito privilegiato per le esplorazioni interiori più intime dei diversi personaggi. In questo senso, pienamente in linea con questa impostazione si è rivelata l’interpretazione del personaggio di Giselda – l’unica in scena di bianco vestita – da parte di Lidia Fridman, che ha debuttato in questo ruolo offrendo una prova di palese impatto e tecnicamente sicura, scevra di particolari raffinatezze soprattutto nella tessitura medio-alta ma capace nel complesso di attraversare con solida consapevolezza quelle variazioni emotivo-espressive che il proprio personaggio matura nel corso dell’opera. Anche il Pagano di Michele Pertusi si è caratterizzato per una consapevole connotazione interpretativa che ha saputo crescere nel corso dei quattro atti, partendo dalla presenza vocalmente un poco opaca dell’avvio per poi dare un corpo sempre più definito e autorevole dal suo ambivalente e impegnativo personaggio. Antonio Corianò ha delineato un Arvino dall’equilibrata pasta vocale e dall’efficace cifra interpretativa, mentre l’Oronte di Antonio Poli è parso dare maggior rilievo a una intensità vocale a tratti oltremodo esposta a discapito di una cantabilità più definita. Nel complesso equilibrata la buona prova degli altri protagonisti in scena: Giulia Mazzola (Viclinda), Luca Dall’Amico (Pirro), William Corrò (Acciano) e gli allievi dell’Accademia Verdiana Zizhao Chen (Un Priore) e Galina Ovchinnikova (Sofia).
Efficace e convincente il segno impresso al discorso musicale da Francesco Lanzillotta – che ha diretto sulla sedia a rotelle per le conseguenze di un recente infortunio – per la prima volta al Teatro Regio di Parma e al Festival Verdi, protagonista nel complesso di una lettura assieme serrata e fluida sul podio di una reattiva Filarmonica Arturo Toscanini – della quale è stato già direttore principale dal 2014 al 2017 – e di una efficiente Orchestra Giovanile della Via Emilia impegnata nelle parti in scena, oltre che del Coro del Teatro Regio di Parma preparato con la consueta solerzia da Martino Faggiani, protagonista di un applauditissimo “O Signore dal tetto natio”.
Proprio il coro è stato inoltre al centro di una delle scelte più efficaci di questa messa in scena, che ha portato sul palcoscenico inoltre alcuni strumenti protagonisti di una partitura che riserva loro uno spazio particolare. Quindi il coro, appunto – in quest’opera come nel precedente Nabucco vero e proprio “personaggio” verdiano – diretto in scena dallo stesso Faggiani (“A te nell’ora infausta”), ma anche il flauto e clarinetto a inizio d’opera, l’arpa che accompagna la visione di Giselda nel quarto atto e il violino impegnato nel “solo” dal sapore paganiniano del terzo atto, dove il primo violino della Toscanini Mihaela Costea ha raccolto un significativo e meritato tributo da parte del pubblico.
Pubblico che alla fine è stato generoso di applausi per tutti gli artisti impegnati, con un calore particolare rivolto a Pertusi – beniamino locale – alla Fridman e naturalmente a Pizzi, la cui lettura registica nutrita anche di una palese critica alle guerre attuali e al di là di qualche ridondanza retorica – incarnata, per esempio, da certi isolati momenti scenici riservati al personaggio di Pagano/Eremita o dai due bambini in scena a fine rappresentazione – ha decisamente convinto i presenti alla “prima” parmigiana.
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