La disordinata diversità del presente in scena al Festival Musica di Strasburgo
Nel weekend di apertura la prima opera di Simon Steen-Andersen, un’intera notte con la musica di Jean Catoire e di altri minimalisti, le composizioni dalle avanguardie storiche e di quelle contemporanee e l’hip hop sperimentale di clipping
Compie quarantuno anni il Festival Musica di Strasburgo ma Stéphane Roth, direttore generale dal 2019, spinge sul pedale del rinnovamento e la ricerca di un pubblico diverso e trasversale, come diversa e trasversale è la lingua (o piuttosto le lingue) attraverso cui si esprime la creatività contemporanea. Per l’apertura sceglie uno spazio industriale, decentrato e da diversi anni destinato alle “musiques actuelles”. A parte una tribuna a fondo sala, il pubblico è invitato a stare in piedi o anche a danzare nello spazio libero davanti alla pedana destinata ai performers. Il lungo programma è nettamente diviso in due parti e tocca ai poliedrici musicisti dell’ensemble Asko|Schönberg aprire con i Vespers For A New Dark Age (2015) dell’americana Missy Mazzoli, reinvenzione delle tradizionali preghiere del vespro in chiave contemporanea ma con echi di sonorità arcaiche su versi di Matthew Zapruder che trattano di divinità e tecnologia. Si continua poi con l’energetico Hoketus (1976) di Louis Andriessen per due ensemble “simmetrici” di cinque musicisti impegnati in un conflitto simbolico su un ritmo martellante con piccoli slittamenti dinamici che danno movimento all’ossessiva ripetitività dell’espressione musicale. La seconda parte è tutta consacrata a clipping, gruppo californiano di hip hop sperimentale guidato dal vocalist Daveed Diggs, poliedrica figura di attore, paroliere e rapper, con i confondatori William Hutson e Jonathan Snipes all’elettronica live.
Decisamente più classico il primo dei concerti del lungo primo sabato di festival nella centralissima Chiesa del Temple Neuf ancora con tre musicisti dell’Asko|Schönberg. “Een Twee Drie” è il titolo scelto per il concerto che vede esibirsi come solisti, nell’ordine, il violinista Joseph Puglia (uno) nell’acrobatica Sequenza VIII per violino solo (1976) di Luciano Berio, la pianista Pauline Post (due) nello sperimentale (all’epoca) Blokken (1966) di Louis Andriessen, uno dei pochi esempi di partitura grafica del compositore proiettata su un grande schermo durante l’esecuzione, e infine il clarinettista David Kweksilber (tre) nei celebri Tre pezzi per clarinetto solo (1919) di Igor Stravinskij, composizione che sorprende sempre per lo sguardo lungo del compositore. L’escursione nel Novecento delle avanguardie dei tre bravi musicisti continua con una scelta della curiosa raccolta Thirteen Harmonies per violino e pianoforte (1986) di John Cage, per una volta più compositore che performer iconoclasta, e si conclude con l’iconico Contrastes (1938) di Béla Bartók in una esecuzione di straordinario equilibrio.
Lo stesso spazio ospita anche il curioso concerto-performance collectif lovemusic, ensemble strumentale di stanza a Strasburgo. Sotto il suggestivo titolo “Nightmare” propone senza soluzione di continuità una silloge di recenti composizioni “da paura”, tutte più suggestive sulla carta che per sincera ispirazione. Apre il concerto Nobody’s (2010) di Ted Hearne per il violino “indiavolato” di Emily Yabe dalla tribuna dell’organo, seguito da Rage against reply guy (2021) di Bára Gísladóttir, brano suggestivo soprattutto per l’insolito impasto timbrico dominato dalle sonorità disturbanti di chitarra elettrica e violino negli esasperati parossismi fonici (il “reply guy” del titolo è chi commenta tweet o post sui social media in modo fastidioso, accondiscendente, sfacciato e sempre non richiesto, soprattutto i post di donne). La dimensione performativa domina l’inquietante Second nightmare, for KIKU per violino e due assistenti (2013) di Natacha Diels, mentre The Night Mare (2011) di Christopher Cerrone propone l’esperienza di rumori quotidiani distorti nella chiave del sogno, m0nster (2022) di Andreas Eduardo Frank di mostruoso ha solo il titolo trattandosi in effetti di un quartetto piuttosto convenzionale tranne nella scelta degli strumenti, e [iɱ’fƐrno] (from MAPPA). Contrapasso I–V (to: Wladimir Putin : Sergej Lawrow) (2022) di Hemuth Oehring insiste anche sulle capacità performative dei musicisti che attraverso suoni disarticolati, il linguaggio dei segni e grida mute di terrore trascina nell’inferno abitato da presenze come Vladimir Putin e Sergei Lavrov.
Nello spazio un tempo industriale della Hall Grüber (oggi abitato dal Théâtre National de Strasbourg) rivivono le acrobazie (multi)linguistiche del “teatro d’orecchio” di A-Ronne (1974-75) su testo di Edoardo Sanguineti. La solida performance, anche coreutica (la ginnica coreografia è di Claire Croizé), degli otto vocalist di HYOID voices (Esther Rispens, Naomi Beeldens, Ellen Wils, Fabienne Seveillac, Andreas Halling, Eymeric Mosca, Arnout Leems, Pascal Zurek) diretti da Filip Rathé, è fatta precedere nella “mise en éspace” concepita da Joris Lacoste da un eccessivamente lungo prologo nello spazio vuoto avvolto in una nebbia sottile e nel buio, spezzato solo da un gioco di luci (di Florian Leduc), con l’elaborazione elettronica di voci sussurrate e suoni diversi di Sébastien Roux ascoltabile nelle cuffie distribuite a ogni spettatore libero di muoversi nello spazio.
Piatto forte dell’edizione annuale di Musica è il debutto da operista del compositore Simon Steen-Andersen, che torna anche con un altro suo pezzo in chiusura di rassegna, Trio (2019) per orchestra sinfonica, big band e coro nell’oramai tradizionale trasferta nella vicina Basilea. Per questo atteso debutto, produttivamente molto impegnativo, Musica unisce le forze con l’Opéra du Rhin e l’Opera reale danese di Copenhagen, dove il lavoro si vedrà nel prossimo aprile.
Il titolo, Don Giovanni aux Enfers (o Don Giovanni’s Inferno nella versione danese), dice già molto: protagonista è proprio il dissoluto punito mozartiano, che ad apertura di sipario viene mostrato nella celebre scena del banchetto proprio quando fa il suo ingresso il convitato di pietra. La prima scena è una citazione alla lettera, musica compresa, dell’opera mozartiana, rappresentata secondo i classici cliché operistici. Come da copione, il commendatore trascina all’inferno Don Giovanni e da quel momento ha inizio un mosaico citazionista con tessere estratte da un catalogo di 40 opere a soggetto demoniaco, individuate fra quelle che rappresentano l’inferno o per la presenza di personaggi collusi col demonio (come lo Jago verdiano e l’Olandese wagneriano), tenute insieme da una trama metaoperistica, che ai più esperti non può non stimolare il gusto dell’identificazione della fonte come in un grande quiz dell’opera (e per non rovinare il gioco a nessuno non diremo nulla di più delle opere coinvolte). Non una sola nota della complessa partitura musicale, infatti, è stata composta da Steen-Andersen, fedele alla sua estetica musicale dell’“objet (musical) trouvé”, che si concede pure qualche divertente digressione con arie in autotune o in versione gothic rock (il sound più vero dell’inferno?). Il segno autorale è nell’insieme, suoni e parte visiva, firmata dallo stesso Steen-Andersen con il contributo del costumista Thibaut Welchlin.
La stessa rappresentazione dell’inferno, grazie alla complessa interazione con le immagini video girate, come sempre, da Steen-Andersen in buona parte nei sotterranei dello stesso teatro che accoglie il suo spettacolo come in una suggestiva “mise en abyme”, è in sé una grande invenzione metateatrale, che rimanda a certe operazioni di Mauricio Kagel o di John Cage (il ciclo di Europera, in particolare). Simile nella costruzione a The Return visto alla scorsa Biennale Musica, ben più compatto e drammaturgicamente coerente grazie anche a un soggetto più circoscritto (la ricerca del luogo della prima rappresentazione dell’Ulisse monteverdiano), questa nuova creazione nasce con mezzi molto più ingenti: diversi cantanti (fra tutti citiamo Christophe Gay, un divertente e divertito Don Giovanni, e Damien Pass, un demoniaco Polystophélès di singolare talento multilinguistico), il Coro dell’Opéra national du Rhin, l’Orchestre Philharmonique de Strasbourg e un ensemble strumentale, il versatilissimo Ictus con il suo strumentario insolito, dal barocco al contemporaneo, con flauto, tromba, viola da gamba, chitarra elettrica e percussioni. Mezzi dunque molto generosi, governati da un direttore di doti non comuni come Bassem Akiki, che servono un nucleo drammaturgico semplice in fondo ma declinato in una complessità e ricchezza di spunti non sempre coerenti con l’assunto. Comunque lo si giudichi, questa frastornante e divertente operona è un grande omaggio a una certa idea di opera, molto ancorata ai fantasmi del passato, di un operista apostata, che però indica una salvezza a quel suo povero Don Giovanni perduto nell’inferno citazionistico: il divino Claudio. Indossati gli abiti di Orfeo, Don Giovanni abbandona i gironi infernali per tornare a riveder le stelle.
Non c’è festival che si rispetti oggi che non proponga un evento XXXL. Al Festival Musica è la “Nuit de Jean Catoire” in programma al Palais des Fêtes dalle 23 di sabato alle 7 del mattino seguente. Figura singolare e appartata di didatta e compositore (“Non ho mai amato alcuna musica e soffro sempre di più all’ascolto di tutta la musica, della mia ancora più di tutte le altre” è una sua significativa affermazione), scomparso nel 2005 a 82 anni lasciando un catalogo di 604 composizioni ufficiali oltre a quelle distrutte da lui stesso in corso d’opera. In occasione del centenario, un’ampia selezione di pezzi di questo compositore definito minimalista viene riproposta in cinque blocchi di 90 minuti alternata a pezzi di altri celebri minimalisti ufficiali di scuola americana come Philip Glass, Terry Riley, Terry Jennings, ma anche di minimalisti di mezzi come György Kurtág e di molti altri non esattamente classificabili come tali ma per affinità con le sue atmosfere ipnotico-esoteriche come Arvo Pärt, Giacinto Scelsi, Alvin Lucier e molti altri. I musicisti dell’ensemble ONCEIM si esibiscono al completo sotto la direzione di Frédéric Blondy nel tema ripetuto all’infinito e le armonie elementari del primo movimento della Symphonie n. 59 op. 516di Catoire ad apertura di serata e quindi in formazioni variabili e spesso come soli nei pezzi che seguono. Formazione variabile anche per pubblico che assiste sdraiato su comodi cuscini o su meno comode sedie a sdraio. Anche il sonno è evidentemente consentito.
Animati dalla volontà di inclusione (e comunque il pubblico ai diversi eventi non manca ed è davvero trasversale), Stéphane Roth e il suo team hanno deciso di coinvolgere alcuni spettatori o spettatrici informati nella programmazione di alcuni eventi. In questa edizione Bernard Pfister, dermatologo in pensione e fedelissimo di Musica fin dalla prima edizione, propone un programma alla Salle Amadeus del Münster interamente consacrato a composizioni di Olivier Greif, allievo di Luciano Berio alla Julliard School e quindi suo assistente, scomparso nel 2000 all’età di cinquant’anni e mai eseguito prima nella rassegna strasburghese. Dal relativamente generoso catalogo del compositore, la scelta è caduta su tre composizioni particolarmente emblematiche: Oi Akashe per violoncello e pianoforte (1983), la Sonata n. 22 “Les plaisir de Chérence” per pianoforte op. 319 (1997) e la Sonate de Requiemper violoncello e pianoforte op. 283 (1992). Anche se affidati alla perizia di due interpreti non nuovi al repertorio di Greif, come la violoncellista Emmanuelle Bertrand e soprattutto il pianista Pascal Amoyel, non emerge un carattere preciso nell’eclettismo di stili e nell’impiego di motivi molto diversi che alla fine risulta piuttosto priva di caratteri riconoscibili.
Difficile tentare una sintesi della tre giorni di avvio del nuovo Musica. O forse inutile, poiché il miglior modo per interpretare il presente è rappresentarlo nella sua disordinata diversità.
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