Volare o morire: l’epitaffio discografico di Jaimie Branch
Esce postumo Fly or Die Fly or Die Fly or Die ((world war)) del quartetto guidato dalla trombettista statunitense
Ammirandola in azione nel duo Anteloper con Jason Nazary, il 29 maggio dello scorso anno, durante la giornata conclusiva del festival Jazz Is Dead!, non potevamo certo immaginare che Jaimie Branch, detta “Breezy”, in capo a nemmeno due mesi sarebbe morta, uccisa da un’overdose di oppioidi all’età di 39 anni.
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Ha fatto appena in tempo a elaborare negli studi dell’International Anthem a Chicago il materiale registrato in aprile con il quartetto Fly Or Die (oltre a lei: il violoncellista Lester St. Louis, il contrabbassista Jason Ajemian e il batterista Chad Taylor) nel corso di una residenza al Bemis Center for Contemporary Arts di Omaha, in Nebraska.
Il risultato, rifinito nei dettagli dagli altri musicisti insieme alla sorella Kate, è incluso adesso in Fly or Die Fly or Die Fly or Die ((world war)), terzo lavoro della formazione, cui ne va aggiunto uno dal vivo uscito nel 2021.
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«Jaimie voleva che fosse un album rigoglioso, potente e pieno di vita», scrivono i suoi partner nelle note di copertina di questo involontario epitaffio discografico. Si tratta, in realtà, di un eloquente manifesto della sua visione elastica del jazz, disposta a incorporare linguaggi differenti ai fini della massima libertà espressiva: attitudine simboleggiata da un curriculum nel quale figurano collaborazioni che vanno da Elza Soares agli Yo La Tengo passando da The Bug.
Nell’arco di poco più di tre quarti d’ora sfilano così nove episodi frutto della spontanea esuberanza del suo estro: dopo la breve ma solenne introduzione di “Aurora Rising”, ecco farsi avanti la sinuosa cadenza da jazz etiopico di “Borealis Dancing”, dove la tromba della protagonista, con e senza sordina, sembra evocare l’intensità spirituale di Don Cherry (da lei stessa eletto in gioventù a nume tutelare), come poi accade nuovamente nell’altrettanto “afro” “Bolinko Bass”.
In “Baba Louie” affiora viceversa l’ascendente latino di chi aveva – per parte di madre – sangue colombiano nelle vene: il fraseggio iniziale di marimba allude a “Guantanamera” e prelude a un gioioso sviluppo orchestrale potenziato da trombone, clarinetto basso e flauto. Il vero colpo di teatro, tuttavia, è “The Mountain”: reinvenzione di “Comin’ Down” dei Meat Puppets, dalla cui conformazione country punk viene distillata un’essenza blues.
Nei due ultimi brani citati spicca la voce di Branch, novità quasi assoluta rispetto ai dischi precedenti, forse allo scopo di enfatizzare il messaggio e rendere evidente la corrispondenza fra vivacità creativa e slancio attivista: “Datemi retta, anche solo per un momento, credetemi, il futuro vive dentro di noi, non dimenticate di lottare”, la si ascolta cantare sul ritmo incalzante di “Burning Grey”, con effetto simile a quello che sono soliti suscitare gli Irreversible Entanglements.
Da “combattente psichedelica per la pace”, come si definiva su Bandcamp, “Breezy” dà libero sfogo al proprio ardore nell’impeto travolgente di “Take Over the World” e annuncia: “Prenderò il controllo del mondo e lo restituirò alla terra”.
Il destino non le ha concesso di portare a termine la missione, ma rimarrà comunque traccia della passione con cui la stava perseguendo: ((world war)) – album straordinario al netto del lutto che lo inscrive – ne è un fulgido esempio.