Con Pelléas et Mèlisande ritorna l’opera al festival di Spoleto
Debussy diretto da Ivan Fischer, che ha curato anche la regia insieme a Marco Gandini
La pioggia ha costretto a cancellare il concerto inaugurale dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia in Piazza del Duomo, cosicché il primo importante appuntamento musicale del Festival dei Due Mondi 2023 è stato Pelléas et Mélisande al Teatro Nuovo. Dopo vari anni il festival spoletino è dunque tornato a mettere in scena un’opera, che purtroppo è stata ‘bruciata’ in appena due recite: ma è comunque un nuovo inizio, speriamo.
A dare l’impronta a questa nuova produzione era Ivan Fischer: sua era la direzione, sua era l’ottima Budapest Festival Orchestra e sua era la regia. Non è la prima volta che il direttore ungherese si cimenta con la regia, ma non è quello il suo mestiere e quindi ha chiesto la collaborazione di Marco Gandini. Indubbiamente va attribuita allo stesso Fischer l’idea di portare l’orchestra in palcoscenico, lasciandola però seminascosta dietro alcuni bassi alberelli dai rami contorti: è la foresta, in cui si dovrebbe svolgere soltanto il solo primo quadro e che diventa necessariamente la scena fissa per tutta l’opera, mentre gli autori prevedevano ben quindici ambientazioni e atmosfere diverse. L’orchestra dunque occupa quasi interamente il palcoscenico, tranne una striscia di un paio di metri al proscenio e due piccoli praticabili, uno dei quali rappresenta la torre, mentre l’altro serve per tutti i diversi interni del castello. Le possibilità di movimento dei protagonisti sono perciò molto limitate.
A parte questa trovata bizzarra, che condiziona negativamente tutta la messa in scena, l’idea che guida Fischer è eliminare le ambientazioni indeterminate, sfumate e suggestive e di conseguenza cancellare l’alone di mistero, d’ignoto, di arcano e di enigmatico in cui si svolge quest’opera. Questo significa cancellare il simbolismo, che viene o veniva considerato l’essenza stessa di Pelléas et Mélisande, o almeno ridurlo a un mero sfondo, facendo invece emergere come vero argomento dell’opera la solita storia, quella - per dirla in maniera un po’ brutale - di soprano-tenore-baritono, naturalmente narrata in musica da Debussy con una sensibilità nuova. È la storia di un amore impossibile tra due giovani, un amore casto, nonostante le forti pulsioni erotiche, palesi ma sempre represse. Contrapposto a loro è il sanguigno e violento Golaud, che alla fine - come in tanti melodrammi - uccide per gelosia i giovani amanti. Ma lei sopravvive abbastanza da consentire un’ultima straziante scena che ne sublimi la morte, in modo che l’opera non finisca con un gesto di brutale violenza.
Inizialmente non trovare le attese atmosfere simboliste lascia un po’ spaesati e perplessi, ma gradualmente Ivan Fischer riesce a convincerci che la sua interpretazione è molto personale ma non priva di fondamento. In ogni caso va riconosciuto che con la sua magnifica orchestra mette in rilievo le infinite preziosità dell’orchestrazione, seppure illuminate da una luce nitida e netta e non immerse nel flou, vaporoso e sfumato, che è considerato il marchio di fabbrica di Debussy, o almeno lo era prima dell’avvento di Pierre Boulez. Inoltre fin dall’inizio Fischer attribuisce ai personaggi una maggiore vitalità rispetto alle esangui creature delle interpretazioni tradizionali. Ma è soprattutto nella seconda parte (atti quarto e quinto) che fa emergere in primo piano la drammaticità accesa e violenta di questo dramma di amore e morte. Il tutto senza fare violenza a stile, linee vocali, orchestrazione e armonie di Debussy.
Ottimo il cast. Con la sua capigliatura rossa e il suo profilo delicato, Patricia Petibon sembra uscita da un quadro del pittore simbolista Gustave Moreau: è una Mélisande perfetta, eterea e fragile, che lascia però trapelare chiaramente i suoi turbamenti amorosi per il cognato Pelléas. Ha il physique du rôle anche Bernard Richter, che come interprete è più diretto: il suo Pelléas è un libro aperto, innamorato come un adolescente ingenuo (se ce n’è ancora qualcuno). Tassis Christoyannis è un eccellente Golaud: il tipico baritono mèchant ma con grande stile e senso della misura. Nicolas Testé dà ad Arkel una voce scura e salda: un uomo anziano in cui ancora vibrano le passioni, non un vegliardo ormai distaccato da questo mondo. Un vero lusso è il cameo di Yvonne Naef nella breve parte di Genviève.
Teatro pieno, seppure non totalmente esaurito, e successo molto caloroso, non comune per un’opera che in genere non eccita il pubblico.
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