L’Afrique, c’est chic al Cully Jazz
Quarantesima edizione per il Cully Jazz Festival, tra Africa e afrobeat
In tempi di proibizionismo e divieti assortiti mascherati da presunte fluide libertà, pare curioso poter affermare senza tema di smentita che il Cully Jazz è un festival fondato su un alto tasso etilico.
Inconfutabile, il grafico-torta del bilancio da 2,2 milioni di franchi svizzeri visualizza in beige come il 40% degli introiti sia derivato dalla vendita di bevande e cibi assortiti. Il comunicato ufficiale di chiusura ha reso noto che negli otto giorni della manifestazione, suddivisa nella sezione IN (35 concerti) e OFF (85 live gratuiti), sono transitati oltre 62 mila festivalieri e venduti oltre 13 mila biglietti. L’anno scorso, con 48 mila visitatori, erano state stappate o vendute quasi dodicimila bottiglie di vino (i calcoli del 2023 sono ancora in corso, vi faremo sapere).
Se si considera che anche la birra scorre a fiumi si giunge a cifre da capogiro, il tutto per un borgo da 1800 anime scarse, accucciato a pochi chilometri da Losanna tra il lago Lemano e i vigneti del Lavaux.
Per non perdersi nel simpatico bailamme dal profumo di sagra paesana, era d’uopo organizzarsi e ci è sembrato naturale avvolgere il filo rosso di sonorità africane assai variate. Lasciati dunque scorrere tra gli altri Erik Truffaz, Manu Katché e Barbara Hendricks in versione lady sings the blues, il 18 aprile abbiamo varcato la soglia del Chapiteau, tendone da 1400 posti sonorizzato meglio di innumerevoli teatri di nostra conoscenza, per scoprire le qualità di Sona Jobarteh, che ha dalla sua una storia non banale.
Nonostante appartenga a una famiglia griot gambiana e vanti rinomate ed estese parentele di secondo grado (Toumani Diabaté), per sesso e divieti sociali mai sarebbe potuta diventare una virtuosa di kora. Il fatto che ci sia riuscita depone a favore della sua testardaggine e forza d’animo, testimoniate anche dalla creazione in patria di un’Academy intesa a promuovere la cultura africana accanto agli studi ufficiali, a suo dire troppo spesso legati a valori post-coloniali.
Per avviare al meglio lo spettacolo ha pescato un paio di temi da Fasiya (“Jarabi” e “Mamamuso”, dedicato alla nonna), promuovendo un’idea di musica che non manca di aperture a influenze globaliste, per larghi tratti coinvolgente. In possesso di una voce più che catturante e accompagnata da un quartetto nel quale ha brillato il chitarrista Eric Appapoulay, inglese di origini mauritane già con Neneh Cherry, la Jobarteh è poi passata a setacciare il suo ultimo album Badinyaa Kumoo (2022), a cominciare da “Nna Kangwuo” e “Dunoo”. Sono canzoni, non appartenenti alla tradizione mandinga e per questo eseguite alla chitarra, che emanano un manifesto sapore desert blues, a riconfermare la grande varietà musicale del West Africa. Quando scocca l’ora dell’anthem “Gambia” si comprende che stiamo andando verso la fine di uno show in cui Sona, pur non dando l’impressione di essere a livello dei migliori suonatori contemporanei di kora, ha dimostrato di possedere la personalità e la disinvoltura di chi sa di incarnare un personaggio che va oltre la pura dimensione artistica.
A seguire è toccato al trio messo in piedi da Cheick Tidiane Seck con Paco Séry e Guy Nsangué cercare di mantenere il groove alla giusta temperatura. Il pianoforte di Seck e le sue tastiere talvolta virate a sonorità organistiche si sono sposate all’effervescenza ritmica della batteria fremente di Sery e al basso acrobatico di Nsangué, con la risultante di un afrojazz composito e fusionista per via delle differenti origini dei tre (Mali, Camerun e Costa d’Avorio). A tratti debitore di sonorità alla Manu Dibango, di cui è stata reinterpretata la hit “Bessoka”, per venire incontro all’uditorio Seck ha puntato molto sull’interazione con la platea, tra brevi refrain da cantare in coro e mani battute a ritmo. Un classico escamotage che a lungo andare ha mostrato la corda, impedendo di fatto al live di prendere davvero il volo.
Molta carne al fuoco nel sabato conclusivo del festival, già a iniziare dal pomeriggio, dove al Tempio protestante si è esibito in prima assoluta un quartetto extra lusso. In verità è l’unione inattesa di due coppie dalla vita ampiamente collaudata, una formata da Ballaké Sissoko (kora) e Vincent Ségal (violoncello), l’altra da Vincent Peirani (fisarmonica) ed Émile Parisien (sax soprano).
Reduci da un recente ottimo disco, Les Égarés (gli smarriti), hanno dato luogo a un set del tutto acustico, frutto di ricercate melodie mai evanescenti perché ancorate a terra da un senso ritmico accentuato. Esperti nel salto dei generi e circumnavigatori dei luoghi comuni, con perizia si sono mossi come un corpo unico, avvantaggiati dall’ascolto concentrato e partecipe dei presenti. La scaletta ha proposto un tradizionale mande (“Ta Nye”), soffice e svolazzante, le nostalgie assortite di “Time Bum”, nonché i meandri oscuri e misterici di “Nomad’s Sky”.
In “Izao” hanno vagato liberamente fra i Balcani e l’Armenia, con nessun problema a innestare un paio di marce in più, come per l’“Orient Express” di Joe Zawinul, o a stare sui tempi un poco bluesistici di “Dou”. D’obbligo la dedica al noto fisarmonicista transalpino Marc Perrone, con la felice ripresa di “Esperanza”, restituita al massimo dell’esuberanza cromatica, e da ricordare il finale con “Amenhotep”, composto da Ségal, che ha permesso ai quattro di mostrare per intero la loro bravura nelle divagazioni strumentali, pur se alle prese con un tema volutamente avvitato su se stesso.
In serata siamo ritornati al Chapiteau, per ascoltare l’ancora arzillo Mulatu Astatke, presentatosi con un robusto nonetto, comprendente tra gli altri James Arben (sax tenore e flauto), Byron Wallen (tromba) e il contrabbassista John Edwards, forse una punta troppo roboante e tuttavia funzionale a immettere linfa vitale nell’inconfondibile ethio jazz del leader. Il quale si è diviso tra l’amato vibrafono (troppo poco in verità), wurlitzer, percussioni e tamburi assortiti, proponendo una sequenza di sue scritture tra le quali non poteva mancare “Yekermo Sew”, contenuta nel Broken Flowers di Jim Jarmusch, snodo cruciale della riscoperta di Astatke presso il pubblico internazionale.
Nell’insieme ne è venuto fuori un live senza grandi sorprese, centrato sui classici del repertorio come “Netsanet”, “Chick Chikka” e la conclusiva “Mulatu” (in quanti possono permettersi di intitolarsi un brano?), alle quali ampie digressioni solistiche e di gruppo hanno dato un tocco di imprevedibilità.
A chiudere la porta e il festival i londinesi Kokoroko, saliti sul palco nella formazione a sette, senza cioè la sassofonista Cassie Kinoshi e con al trombone non Richie Seivwright bensì Anoushka Nanguy. La trombettista e leader Sheila Maurice-Grey non è partita con il piede giusto e, appena prima di avviare “Ewà Inú”, l’incauta affermazione “siamo molto contenti di essere qui a Ginevra” è stata salutata da un’amichevole selva di fischi e ululati divertiti, perché sulle questioni di campanile in Svizzera non si transige.
Pur senza intervallo, il loro set è parso diviso in due sezioni piuttosto nette, con una prima parte piuttosto morbida e languente, talvolta risolta in chiave neo soul e incrinata da sfioramenti pop (“Ti-De”, “Dide O”, “Those Good Times”), e una seconda decisamente più vigorosa, sottolineata da più stretti legami con la lezione di Fela Kuti ed Ebo Taylor, in cui la maestria del gruppo nel fagocitare l’improvvisazione dentro le maglie dell’afrobeat (“Carry Me Home”) è parsa evidente. D’istinto preferiamo quando escono dai binari, anche se tracce atmosferiche quali “Abuse Junction” e “Something’s Going On” sono destinate a farsi ricordare a lungo.
Appuntamento al prossimo anno, dal 5 al 13 aprile: fateci un pensierino, ma spostatevi in treno, come oltre il 70% degli spettatori, perché se sulla strada del ritorno vi fanno soffiare nel palloncino non potete scamparla.
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