“Hanjo”, drammaturgia dell’attesa

A Trento in scena l’opera Hanjo alla presenza del compositore Toshio Hosokawa, nell’ambito di Opera 23 della Fondazione Haydn

Hanjo (foto di Francesco Bondi)
Hanjo (foto di Francesco Bondi)
Recensione
classica
Trento, Teatro Sociale
Hanjo
01 Aprile 2023 - 02 Aprile 2023

Opera incardinata sul senso di un’attesa sospesa e senza speranza, è andata in scena nell’ambito di Opera 23 della Fondazione Haydn di Trento e Bolzano Hanjo, lavoro originariamente commissionato dal Festival di Aix-en-Provence per l’edizione del 2004 e dedicato al direttore d’orchestra Kazushi Ono, che l’autore, il compositore giapponese Toshio Hosokawa, ha voluto seguire di persona in occasione della recita di sabato 1 aprile, assieme al pubblico presente al teatro sociale di Trento.

Coprodotto dalla Fondazione Haydn assieme a Catapult Opera New York, questo allestimento è stato plasmato dalla direzione musicale di Marco Angius e tratteggiato dalla regia e coreografia di Luca Veggetti. Una lettura nella quale i due piani, quello musicale e quello scenico, si sono come inseguiti nelle sei scene nelle quali si articola questa sorta di percorso ellittico e non-narrativo, in cui il tema dell’attesa diviene una sorta di epicentro capace di innescare una specie di statica implosione centrifuga che coinvolge i tre personaggi in scena.

Hanjo (foto di Francesco Bondi)
Hanjo (foto di Francesco Bondi)

Il testo del libretto di Hosokawa, ispirato alla raccolta Five Modern Nō Plays dello scrittore giapponese Yukio Mishima (1925-1970) – a sua volta tratta dal dramma di Motokiyo Zeami (1363-1443), uno dei più conosciuti testi del tipo kyōjo (donne che hanno perso la ragione) – e basato sulla traduzione inglese di Donald Keene, racconta la storia d'amore tra la geisha Hanako e il giovane Yoshio i quali, costretti dal destino a separarsi, si scambiano i ventagli, pegno e promessa assieme di un futuro ricongiungimento.

Sulla base di questo antefatto, l’azione dell’opera si presenta come immagine plastica di un’attesa – quella del ricongiungimento, appunto – che diviene trasposizione in un altrove rappresentato dalla follia che si impossessa della stessa Hanako, prigioniera di una sospensione della propria esistenza divenuta schema irrinunciabile di vita a tal punto che, quando finalmente si trova di fronte Yoshio ritornato da chissà dove, non lo riconosce – o non lo vuole riconoscere – e sceglie di proseguire il suo immobile percorso, ormai ideale e idealizzato, di attesa solitaria.

Hanjo (foto di Francesco Bondi)
Hanjo (foto di Francesco Bondi)

Una solitudine accompagnata – verrebbe da dire, osservata con un misto di desiderio e venerazione – da Jitsuko, una pittrice che ha riscattato la geisha Hanako per tenerla con sé, custodita in uno spazio intimo che diviene luogo da cui fuggire al sospetto che Yoshio possa raggiungerlo per riscattare a sua volta la stessa Hanako.

Un incrocio di attese, quindi, che si dispiega in uno spazio aperto e vuoto, dove la penombra restituisce la forma di una stanza senza pareti, luogo astratto e simbolico nel quale si muovono i personaggi, tracciato sul pavimento scuro del palcoscenico attraverso il sottile perimetro luminoso di quella stessa stanza. Una soluzione che ricorda Dogville, film del 2003 diretto da Lars von Trier e girato in teatro di posa senza scenografie ma solo segni e scritte distribuite a terra. Un impianto scenico più che essenziale e scarno, insomma, tratteggiato dalle luci e dalla non-scenografia di Clifton Taylor.

Hanjo (foto di Francesco Bondi)
Hanjo (foto di Francesco Bondi)

Su questo spazio delimitato da un vuoto quasi claustrofobico – intervallato a tratti dal lineare pannello dipinto dall’artista Moe Yoshida – si sono mossi con efficace misura i personaggi incarnati dai bravi cantanti impegnati, vale a dire Eri Nakamura (Hanako), Abigail Fischer (Jitsuko) e Adam Richardson (Yoshio), tutti protagonisti di una sicura prova vocale nei rispettivi e impegnativi ruoli, affiancati dal discreto e funzionale contrappunto coreografico di Alice Raffaelli.

Marco Angius ha saputo guidare il palcoscenico e l’ensemble strumentale della Haydn con accurato ed efficace gusto espressivo, declinando con significativa coerenza il tessuto musicale di Hosokawa, generato dall’intreccio tra un ordito strumentale attraversato da raffinate sfumature ritmico-timbriche e un intarsio vocale che miscelava canto, Sprechstimme e parlato con gusto disciplinato e raffinato al tempo stesso.

Uno spettacolo la cui efficacia musicale e drammaturgica ha saputo raccogliere anche il consenso del pubblico presente, che ha tributato alla fine significativi applausi a tutti gli artisti impegnati, Hosokawa compreso.

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