Aspettando l’Apocalisse (e il dopo)
Che siamo vicini o no alla fine di tutto, è possibile. Superato più o meno indenni lo scoglio del cambiamento di millennio e tutti gli altri che l’anno preceduto (Ernesto De Martino docet), pensavamo di essere ormai al sicuro e invece abbiamo preso sempre più coscienza che qualcosa dobbiamo cambiare nelle nostre abitudini di vita se vogliamo garantire un futuro al nostro malandato pianeta. In questo sconfortante paesaggio, inevitabile che anche le scene liriche riflettano le inquietudini del nostro tempo. Avviene ovviamente a Berlino.
L’Apocalisse ha un lieto fine
Per decenni rimasta nel cassetto, Antikrist di Rued Langaard ha finalmente avuto la consacrazione definitiva con l’allestimento della Deutsche Oper, tenuto a battesimo già nella scorsa stagione e ripreso “a grande richiesta” anche in questa stagione. Nella capitale berlinese questo lavoro arriva dopo la prima assoluta postuma a Innsbruck nel 1999, un paio di rappresentazioni in Danimarca, patria del compositore, e la prima tedesca allo Staatstheater di Mainz nel 2018.
Composta negli anni Venti del secolo scorso e profondamente rivista nei Trenta, questa stranissima “opera da chiesa” (definizione dell’autore) di religioso ha sicuramente un riferimento nell’Apocalisse di San Giovanni, che però è solo una delle fonti assieme all’omonimo poema drammatico del 1907 del pastore luterano Peter Eggert Benzon e al romanzo distopico Il padrone del mondo scritto nel 1907 dal reverendo Robert Hugh Benson. In effetti, Antikrist sembra una medievalistica “morality play” e, sul piano musicale, un oratorio come usava nella Roma barocca. Lo sfondo è una non meglio specificata “Church-Ruin of Noise”, ossia il mondo contemporaneo nel peculiare lessico di Langaard. In quel luogo, nientemeno che Dio “in persona”, che si esprime solo con brevi frasi e mai con il canto, decide di lasciare mano libera a Lucifero, l’Anticristo. Il demonio assume quindi le diverse forme dei peccati capitali dell’umanità – arroganza, malcontento, lussuria, inganno e odio – che si concretizzano nella passerella dei personaggi dell’opera: la Bocca che parla di grandi cose, la Menzogna, La Grande Puttana, l’Odio", lo Sconforto. Nella conclusione, tuonando un biblico “Ephphatha” (“Apritevi al Verbo”), Dio mette fine al regno dell’Anticristo in un mondo che si suppone finalmente purificato.
In Antikrist non si parla certo di problemi ambientali (non pressanti all’epoca) ma, substrato religioso a parte, non è difficile cogliere più di un riflesso delle inquietudini di quei tempi turbolenti e grondanti di populismo e demagogia, fra la fine della Prima guerra mondiale e l’avvento della dittatura nazionalsocialista.
Riflessi che Ersan Mondtag, regista, scenografo e costumista (con la collaborazione di Annika Lu per i sorprendenti costumi), proietta in una trasfigurazione tutta risolta nel segno di un espressionismo esasperato come nelle esaltate scelte cromatiche, evitando facili banalizzazioni o, peggio, qualsiasi fervorino moralistico. L’ambiente è quello urbano con le insegne di un bar e di un hotel in un’epoca tardo-capitalista, nel quale ogni ordine è sconvolto: la catastrofe è un taxi che cade dal cielo, Dio è una incombente statua impiccata con vagina in mostra, e anche lo spazio è deformato (come nel film Inception, con citazione scenografica esplicita). Se Dio e Lucifero non sono che le due facce della stessa medaglia come ci dicono i costumi uguali tranne che nel colore, la passerella dei vizi ha le sembianze di creature mostruose con attributi sessuali in mostra e spesso confusi, come la Grande Puttana dal seno procace e un pene esibito. Ma alla fine il vizio è sconfitto? Forse no, come Mondtag fa capire nel finale, tutt’altro che esaltante la grazia divina, che mostra l’unione fra il Dio nudo e la Grande Puttana con l’umanità e i vizi a far da testimoni.
Eccessi espressionistici caratterizzano anche l’eterogenea partitura di Langaard, ben ancorata alla tradizione orchestrale tardoromantica ma infarcita di interventi di ottoni rinforzati, organo e campane. Hermann Bäumer, sul podio al posto di Stephan Zilias per l’ultima delle recite di questa ripresa e già direttore musicale della produzione di Mainz, tiene saldo il timone della soprendente Orchestra della Deutsche Oper, riuscendo a mantenere alta la tensione musicale negli oltre 90 minuti di musica con un suono orchestrale sempre denso e pieno (splendidi soprattutto i luminosissimi ottoni) senza coprire le voci in palcoscenico. Voci dalla resa un po’ diseguale rispetto alla scrittura spesso impervia di Langaard. Promossa a pieni voti è forse solo Flurina Stucki, la Grande Puttana, capace di infondere un’accattivante venatura lirica e umanizzante al suo personaggio. Riuscite sul piano della caricatura grottesca, e malgrado qualche inevitabile forzatura vocale, le prove di Clemens Bieber, la Bocca che dice grandi cose), di AJ Glueckert, la Bestia scarlatta in versione di satiro infoiato, e di Andrew Dickinson, la Menzogna che sembra il joker delle carte da gioco. Dal canto loro, Irene Roberts, lo Spirito del Mistero, e Valeriia Savinskaia, l’eco dello Spirito del Mistero, riescono a creare una delicata oasi di pace contemplativa prima del trionfo (provvisorio) dell’Anticristo. Molto poco sinistro, invece, il Lucifero di Kyle Miller, soprattutto in contrasto all’esaltata prova di Jonas Grundner-Culemann, che presta il corpo e la voce gridata a un Dio fin troppo umano.
L’inverno di Dafne
Via i pastori, via le pecore, via i fiori, via gli alberi e via anche il sole al tramonto, fonte di vita per Dafne e per la natura nella quale è immersa e della quale si sente parte. È la nuova Daphne allestita alla Staatsoper di Berlino da Romeo Castellucci, che ambienta la vicenda dell’opera di Strauss in un inverno (nucleare?): tutto è immerso nella neve che scende quasi incessante. Tutti girano in giacca a vento o in cappotto, tranne Dafne, che si rotola nella neve in biancheria intima accanto ad un alberello scheletrito. Dalla neve i sopravvissuti estraggono un fregio classico, una testimonianza della civiltà sopravvissuta alla catastrofe. “Il fiume suda catrame e petrolio” scrive T.S. Eliot nel suo The Waste Land, citato da Castellucci con una gigantografia del frontespizio originale datato 1922 (per gli spettatori distratti, che non avessero colto il riferimento): la metamorfosi di Dafne non è in albero di alloro ma in un bagno in una sostanza nera, non portatrice di vita.
Tramontati i tempi degli allestimenti “letterali” – da rimpiangere poco nel caso delle convolute linee narrative del libretto di Joseph Gregor Daphne pressoché impossibili da mettere in scena senza scadere nel kitsch – ma accantonata anche ogni lettura di “secondo grado” come negli allestimenti di grandi firme come Christof Loy e Claus Guth , Romeo Castellucci sceglie la soluzione tangenziale di una installazione scenica su un’apocalisse ambientale, molto studiata soprattutto nel sofisticatissimo disegno luci (dello stesso Castellucci), che rinuncia sostanzialmente a ogni intento narrativo ma che, a differenza di altri suoi spettacoli recenti, risulta depotenziata sul piano emotivo per il suo fondo didascalico.
Se la scena regala poche emozioni, ancora meno ne dà la musica in questa nuova Daphne, sulla quale le aspettative erano piuttosto alte. Sul podio, dopo la folgorante Salome diretta nel 2018 nello stesso teatro da sostituto di Zubin Mehta, per questo nuovo Strauss si ritrova Thomas Guggeis. Certo Daphne non è Salome, ma in questa nuova prova il giovane direttore sembra accontentarsi di tenere insieme l’orchestra, la Staatskapelle di Berlino, piuttosto al di sotto delle sue grandi potenzialità, senza offrire un’idea forte o un momento alto, nonostante la generosa ispirazione musicale che anche questo Strauss regala.
Purtroppo, anche sul piano della distribuzione vocale, questa Daphne convince poco, a partire dalla protagonista Vera-Lotte Boecker, voce limpida e radiosa ma piuttosto sterile sul piano interpretativo dove manca del tutto la stuggente malinconia dello Strauss maturo. Pavel Černoch è un Apollo privo dello slancio eroico e sotto sforzo nella regione acuta, e anche Linard Vrielink è un Leukippos troppo esile e vocalmente acerbo. Molto meglio, invece, René Papecome Peneios, un piccolo ruolo che sembra più che altro un cameo di lusso, e Anna Kissjudit come Gaea capace di trasmettere calore materno ma insufficiente a sciogliere il gelo che avvolge questa produzione. Funzionano bene i quattro pastori di Arttu Kataja, Florian Hoffmann, Roman Trekel e Friedrich Hamel, così come le due ancelle di Evelin Novak e Natalia Skrycka. Solida la prova del Coro della Staatsoper.
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