Quando a fiorire è la malattia
A Francoforte debutta con successo Blühen, la nuova opera di Vito Žuraj su un libretto di Händl Klaus tratto da un racconto di Thomas Mann
Aurelia è una donna di 52 anni. Non è più giovane e soffre per il climaterio ma soprattutto per l’inevitabile perdita di fertilità che sembra contrastare il suo fortissimo anelito verso la natura e la vita. Vedova da dieci anni, ha due figli Edgar e Anna. Quest’ultima, a causa di un handicap al piede, sembra essersi completamente chiusa all’amore e alla vita, soprattutto dopo una sfortunata esperienza matrimoniale. Appassionata di pittura, predilige i soggetti astratti, manifestazione del suo intellettualismo spinto all’estremo ma soprattutto della sua fuga da tutto ciò che è naturale. Inevitabile il contrasto con la madre, di cui, in un certo senso, rappresenta l’opposto. Non ancora rassegnata ad invecchiare, Aurelia conosce Ken, un venticinquenne americano che insegna al figlio Edgar la lingua inglese, e se ne innamora perdutamente, ricambiata dal giovane. Durante un focoso amplesso, Aurelia nota una perdita che la donna scambia con entusiasmo per una ritrovata fertilità. Al culmine della felicità, arriva il verdetto tremendo, che le comunica il dottor Muthesius: la malattia ha ormai invaso il suo corpo e non le concede che poche settimane. Nonostante il suo disperato attaccamento alla vita, la malattia strazia senza pietà il suo corpo. Aurelia muore circondata dalle persone che l’hanno amata.
È il soggetto di Blühen (Fiorire) della nuova opera, la seconda, dello sloveno Vito Žuraj, commissionata dall’Oper Frankfurt e andata in scena con successo al Bockenheimer Depot di Francoforte sul Meno. Il libretto si deve all’austriaco Händl Klaus, che si è più che ispirato al racconto Die Betrogene (L’inganno nella traduzione italiana) di Thomas Mann del 1953, l’ultimo pubblicato in vita dal grande scrittore. Strutturato in sette scene, del lungo racconto originale Händl Klaus ha mantenuto quasi intatto l’impianto narrativo, accentuandone il carattere paradigmatico nell’inevitabile riduzione. Va nella stessa direzione anche la scelta di accentuare nel titolo la dimensione naturalistica così come il cambio del nome della protagonista dal manniano Rosalia von Tümmler ad Aurelia, nome che allude all’oro e dunque alla luce, al sole (lo stesso etimo indica nella divinità sabina Ausel, venerata dagli Etruschi come dio del sole, l’origine del nome).
Se già il testo dà grande rilievo al personaggio di Aurelia, il trattamento musicale si spinge anche oltre, trasformando l’ensemble vocale ma anche l’orchestra come un’estensione sonora dell’esperienza soggettiva della donna, ritratta in tutto lo spettro di emozioni, dalla felicità quasi infantile iniziale fino alla devastante angoscia davanti alla fine. Gli altri personaggi, invece, rimangono sullo sfondo e comunque ancillari alla protagonista. Piuttosto riuscito è invece l’utilizzo in funzione drammaturgica dell’elaborata trama musicale. Come un oscuro presagio, la malattia si ravvisa fin dall’inizio nei passaggi solo sussurrati dagli strumenti più gravi che si intrecciano alle morbide linee liriche del trattamento vocale riservato alla protagonista. E come il diffondersi di quella malattia nel corpo della donna, quei suoni cupi prendono via via il sopravvento fino a esplodere nel momento in cui Aurelia prende coscienza della diagnosi definitiva. Il suo canto si spegne progressivamente e si fonde con quello dell’ensemble vocale, come a voler segnare il suo passaggio a uno stato “altro”. Anche i colori orchestrali si spengono per lasciare sentire i funebri rintocchi di campane tibetane.
L’esecuzione impeccabile è affidata all’Ensemble Modern diretto da Michael Wendeberg, non un’orchestra ma un ensemble di solisti, per di più polistrumentisti come partitura impone. Molto riuscita anche la prova dei solisti vocali e in particolare di Bianca Andrews, capace di scandagliare la psicologia della protagonista Aurelia e di restituirne un lirico ritratto palpitante di vita. Nika Gorič è un’Anna nervosa e introversa, Michael Porter un focosissimo Ken, Alfred Reiter un Muthesius ricco di dolente umanità, mentre Jarrett Porter è un Edgar poco definito, non aiutato da un trattamento musicale piuttosto generico. Funzionale, anche sul piano scenico, l’ensemble di 12 voci preparate da Takeshi Moriuchi.
Firma l’allestimento l’oramai regista veterana Brigitte Fassbaender, debuttante tuttavia in una prima assoluta, nel segno di un’apprezzabile (e sobria) linearità narrativa e cura del gesto attoriale. Lineare è anche il dispositivo scenico firmato da Martina Segna, uno spazio sgombro e lineare invaso da propaggini dalle forme organiche, chiaramente allusive all’invasiva malattia della protagonista, come le scelte cromatiche nei costumi della protagonista e dell’ensemble vocale di Anna-Sophie Lienbacher.
Sala al completo alla prima. Molti applausi e chiamate a tutti gli interpreti e al compositore.
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