Dal 6 al 19 novembre il jazz sarà nuovamente protagonista nella Capitale, grazie al Roma Jazz Festival che porterà all’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone”, alla Casa del Jazz, al Monk e al Teatro del Lido artisti del calibro di Steve Coleman, Lady Blackbird, Enrico Rava, Uri Caine e molti altri.
“Immersivity”, il titolo dell’edizione numero quarantasei, non solo preannuncia performance interattive e immersive ad alto tasso tecnologico ma suggerisce anche l’idea che il jazz sia diventato ormai come un grande Mare Nostrum di suoni, intorno al quale ciascuno può trovare la propria spiaggia preferita, per fare una nuotata, o scegliere un porto, dal quale salpare per scoprire altre sponde.
Abbiamo parlato del Roma Jazz Festival con Mario Ciampá, anche quest’anno responsabile dell’ideazione di questa manifestazione, nonché ovviamente della scelta del programma.
Per il jazz e per il suo pubblico quale è oggi l’utilità di un festival, di una simile concentrazione di concerti?
«Diciamo che se uno dovesse proporre una serie di eventI isolati, per esempio con cadenza mensile, non riuscirebbe mai a catalizzare l’attenzione dei media come può fare un festival. Mi rendo conto che per pubblico la cosa può essere molto interessante ma anche creare qualche difficoltà, perché subentra la capacità di spesa che uno ha».
«Vedendo il programma ci sono persone mi dicono di essere interessate a tre/quattro concerti, poi però bisogna appunto vedere se le stesse persone hanno le possibilità economiche per poter acquistare tutti questi biglietti. Ma da questa difficoltà nasce anche la varietà nella programmazione: cerco di andare incontro ai gusti di diverse fasce di amanti del jazz. Da tantissimo tempo si è adottata la distinzione tra "jazz caldo" e "jazz freddo", tuttavia c’è sempre chi ama una musica più armonica, più rassicurante (il cosiddetto mainstream), chi ama l’improvvisazione e chi invece – soprattutto le fasce più giovani di pubblico – sente meno il peso e il ricordo della tradizione ed è disposto a esplorare nuove sonorità e quindi anche i nuovi linguaggi visivi».
«Il fatto che uno dica di amare il jazz implica poi una seconda domanda: quale jazz?».
«A quel punto quando uno fa una programmazione cerca di soddisfare le diverse aree di pubblico, o almeno così mi comporto io, sono un architetto e finora ogni festival l’ho sempre articolato come si fa con un progetto, scegliendo anche un titolo in relazione al contesto economico e sociale in cui si svolgeva. In sostanza mi pare che il pubblico del jazz non sia così omogeneo come si potrebbe pensare, il fatto che uno dica di amare il jazz implica poi una seconda domanda: quale jazz?».
In effetti è diventato un repertorio molto vasto, un po’ come succede quando si parla di musica classica.
«Sono d’accordo, di conseguenza occorre capire queste varie anime che si sono venute a creare. Una volta era più facile, c’era il jazz tradizionale e il jazz moderno, c’era chi amava lo swing oppure l’hard bop. Adesso dopo tanti anni avviene persino che un ripescaggio, una rivisitazione della tradizione e della memoria porti verso altri lidi, riuscendo ad attirare un pubblico ulteriormente diverso».
«Prendiamo per esempio gli Spyro Gyra. Sono convinto che il loro concerto avrà un bel successo. Ma allora viene da domandarsi come mai un gruppo quasi scomparso, anche se ha una sua tradizione fin dagli anni Ottanta, ha la possibilità di avere un certo appeal (potrebbe essere insomma il tema per un interessante studio sociologico). La risposta presumo sia che questo gruppo interesserà sia quelli che amano la tradizione sia quelli che non la conoscono e che dunque potranno essere incuriositi».
«Tornando alle varie declinazioni del jazz oggi, come possiamo definire la musica di Lady Blackbird? Jazz, soul? Quanta gente si è avvicinata al jazz grazie al new soul e poi ha scoperto che dentro c’erano anche improvvisazioni jazz e quindi poteva ascoltare anche il jazz? Succede anche questo in questo variegato mondo del jazz dei nostri giorni».
Quali sono le proposte comunque più innovative – legate magari a una nuova scena del jazz – nel programma di quest’anno? Quelle che possono ambire a coinvolgere un pubblico nuovo o comunque a presentare nuovi orizzonti a chi già segue il jazz.
«Direi sicuramente Alfa Mist e Nubya Garcia, sono esponenti della nuova scena londinese e hanno ripescato dalla tradizione afro-beat come pure dall’hip hop e li hanno rielaborati. Londra è una grande fucina, questo processo che deriva dalla riscoperta delle proprie origini (africane o afroamericane) da parte di alcuni artisti può avvenire nella capitale inglese più facilmente che in altri paesi europei, dove c’è stata poca contaminazione stilistica e poca contaminazione di popolazione proveniente dalla tradizione black. Fermo restando che qualcosa del genere può verificarsi anche in Francia, dove l’immigrazione è stata molto forte».
«All’interno di questo discorso inserirei anche Isfar Sarabski, musicista azero che ritengo una grande scoperta. Penso ci troviamo di fronte a una situazione simile a quella che abbiamo con un altro grande artista, Tigran Hamasyan, tutti pensavano che venisse da una zona dove non era praticato il jazz e invece anche lui ha saputo portare nel jazz la sua tradizione culturale – una volta lo chiamavamo "jazz mediterraneo". Isfar Sarabski è una figura simile, un vero talento, ottimo pianista, gran conoscitore della tradizione jazz come pure della musica classica, sa pescare dalla tradizione azera, il risultato credo sia dell’ottimo jazz. Anche lui penso possa risultare interessante sia per il pubblico nuovo sia per quello più consolidato».
«Quello su cui punto però come novità, ormai da diversi anni, è il fatto di provare a sovrapporre alla musica diversi linguaggi, in questo caso i linguaggi visivi. In passato abbiamo presentato delle combinazioni col teatro, col cinema, persino con i videogiochi, quest’anno continuiamo con questa ibridazione tra l’improvvisazione jazz e l’improvvisazione visiva. Per esempio il concerto di Danilo Rea insieme a Paolo Scoppola punta proprio a questo: Danilo, che ha una incredibile capacità di improvvisare pescando da ogni dove, si confronterà con gli algoritmi e le grafiche elaborati da Paolo per tradurre proprio la sua improvvisazione musicale in improvvisazione visiva».
«Faremo qualcosa del genere, anche se in modalità meno legata all’improvvisazione, con “Anthropocene” di Kekko Fornarelli, che tratterà il tema dell’intervento dell’uomo sulla natura e di come stiamo vivendo questo cambiamento epocale del clima; discorso simile per quanto riguarda XY Quartet, che racconterà l’avventura dell’uomo sulla luna, sembra una cosa vecchia ma la sfida dell’uomo verso l’universo, come sappiamo, continua».
«Tutti questi appuntamenti portano un nuovo linguaggio nel jazz, soprattutto tentano di renderlo più interattivo e coinvolgente. C’è anche un progetto – lo svilupperemo anche nei prossimi anni – per studiare come la musica possa esprimere dei colori. Ci sono degli esperimenti, riusciti grazie a specifici lettori, che hanno provato come i colori, che sono delle vibrazioni, siano in grado di produrre dei suoni. Noi stiamo cercando di realizzare l’inverso: bene o male lo si è fatto negli spettacoli di pop e rock, io cercherò di farlo nel jazz, senza essere troppo sconvolgente, affinché la musica possa essere accompagnata dal colore. Avverrà per esempio nel concerto di Enrico Rava e Christian Fennesz, cioè in uno di quegli eventi dove il jazz interagirà con la musica elettronica, che è già "abituata" a esprimere colori ed effetti visivi. il jazz ha già alle sue spalle esperienze insieme al cinema e alla fotografia, noi stiamo cercando di alzare un po’ l’asticella, puntando alla videoarte».
C’è infine una riflessione che riguarda la modalità di fruizione della musica jazz, che dal jazz club, per esempio, sta passando sempre più – non ultimo grazie ai festival – a sale da concerto dove il pubblico si ritrova nella compostezza delle poltrone numerate.
«Su questo argomento con me si sfonda una porta aperta, sono stato tra l’altro il creatore del Club Saint Louis e me ne sono occupato per vent’anni, offrendo jazz in un posto dove si poteva stare in piedi o bere qualcosa al tavolino mentre si ascoltava la musica, cosa che all’epoca peraltro mi porto moltissime critiche. Il problema però oggi è soprattutto quello della mancanza di spazi idonei per fare questo, spazi industriali dove poter collocare la musica jazz. Sto riflettendo molto su questo aspetto e spero nei prossimi anni di poter optare, come sono abituato a fare, per una soluzione di tipo radicale».