Quel confuso “Trovatore”
L’opera apre il ciclo di tre titoli verdiani a soggetto spagnolo al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, con Zubin Mehta sul podio e la regìa di Cesare Lievi
È cominciata piuttosto mediocremente, il 29 settembre (repliche fino al 7 ottobre), con il Trovatore, la porzione della stagione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino dedicata, in questa fine 2022, al tema delle opere spagnole di Giuseppe Verdi, con Trovatore, Ernani, Don Carlo. Eravamo e siamo ancora nella Sala Mehta da mille posti, nata come auditorium, inaugurata a fine 2021, e da allora usata anche per le opere, mentre si svolgono i lavori sul palcoscenico nella sala grande, in cui intanto, in questi mesi, già si terranno i concerti sinfonici. Su quel palcoscenico si ritornerà a dicembre per il Don Carlo diretto da Daniele Gatti, mentre l’attesissima Alcina di Haendel con Cecilia Bartoli e l’Ernani diretto da James Conlon saranno ancora qui.
Un Trovatore dalla messinscena di cui oltre si dirà, firmata alla regìa da Cesare Lievi, e con un’esecuzione musicale con i tagli e gli aggiustamenti più o meno di tradizione, con Zubin Mehta che dirigeva con la tranquillità di chi una partitura l’ha diretta mille volte, e forse non se ne emoziona più. A dispetto di questo sentore di routine, il pubblico fiorentino gli ha riservato a fine serata la solita, festosissima accoglienza di sempre.
Nel cast, Fabio Sartori realizzava un Manrico molto lirico e molto poco drammatico, vocalmente senza mende ma povero di slancio e pressoché immobile, al contrario Maria José Siri era una Leonora di grande estroversione scenica e vocale, peraltro è uscita bene anche dalla prova delicata della cavatina D’amor sull’ali rosee. Ci è piaciuta l’Azucena molto intensa di Ekaterina Semenchuk, ma, giustamente, il trionfatore della serata della prima è stato Amartuvshin Enkhbat, del cui profilo di autentico baritono verdiano avevamo già tessuto le lodi, per una Forza del destino di qualche stagione fa. Stavolta, come Conte di Luna, si è preso più applausi di tutti, una vera ovazione dopo Il balen del suo sorriso. Bene anche Riccardo Fassi come Ferrando, e tutto il cast, bene nel complesso anche orchestra e coro.
Del regista, Cesare Lievi, ricordiamo l’esito delizioso, qualche mese fa, dello Sposo di tre, marito di nessuna del giovane Cherubini. Ma stavolta ci ha delusi con un Trovatore velleitario, tutto ricordi, incubi, efflorescenze o rigurgiti dell’inconscio, mal dosati e decisamente troppo ingombranti: bambini in calzoncini corti (i due figli del vecchio conte, presumiamo) alle prese con una strega onnipresente, minacciosa e lungocrinita (evidentemente la madre di Azucena), suore di quelle con le cuffie ad ali larghissime e flappanti in scene che suggeriscono un ospedale forse psichiatrico, una sposa spettrale e poi morta del tutto, che fa da doppio teatrale a Leonora, il tutto in un’ambientazione atemporale, con il Conte e i suoi soldati in palandrane e chepì ottocenteschi, tutti gli altri in panni più o meno tradizionali. Scene e costumi erano di Luigi Perego, le luci di Luigi Saccomandi.
Il succedersi di scene, controscene-pantomime e apparizioni varie era talmente insistito da provocare il tedio, e alla fine ci sono stati fischi per la messinscena, tutto sommato abbastanza moderati, e buon successo per la componente musicale. Buono, sì, ma, diremmo, privo dell’entusiasmo che un bel Trovatore rovente al punto giusto è solito suscitare.
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