Torna a Napoli “Samson et Dalila”
Successo per il capolavoro di Camille Saint-Saëns proposto in una produzione della Staatsoper Unter den Linden di Berlino
Torna al San Carlo di Napoli, da giovedì 29 settembre a domenica 9 ottobre 2022, Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns, produzione della Staatsoper Unter den Linden di Berlino. Il capolavoro di Saint-Saëns - che a Napoli negli ultimi vent’anni anni è stato un titolo peregrino – è firmato dal regista argentino Damián Szifrón e ripreso qui da Romain Gilbert. Gesto assolutamente sobrio, ma sempre dispensato con esatto controllo sia in buca che alle voci, il direttore domina il Samson et Dalila con perizia intelligente, sonorità caratterizzante, pregnante. L'interpretazione di Dan Ettinger disegna una mappa, dall’eterno della città di Gaza all’interno della casa, entro la quale il suono dell'orchestra affiora, lievita, ci commuove. Timbro caldo, con rintocchi dei corni, fino a squarci da groppo in gola nel duetto tra Samson Brian Jagde, e Dalila, Anita Rachvelishvili. Quasi sempre applausi a scena aperta. Emozionanti i momenti con coro massiccio e i potenti sipari finali degli atti, che Saint-Saëns cesella, intrecciati con le voci come pagine riflessive dell'individuo e del popolo.
Dalila si trova ad accogliere i vincitori quando Samson la raccoglie nel suo innamoramento - interpretato con totale immedesimazione dalla Rachvelishvili, una fenomenale Dalila, pragmatica più che sensuale in un primo atto spedito, come si richiede, illusione del sogno di libertà, libertà di coscienza, quale bene più alto dell'umanità. Ideale nello spirito della tragedia, ma soprattutto di intonazione e fraseggio cullanti, rappresenta per Samson ma anche per se stessa il dramma d'una esistenza d’amore. È alla fine più incisiva nell’inganno, dal secondo atto in poi, che nella seduzione. Brian Jagde canta bene subito severo e ben deciso a raddrizzare il destino degli Ebrei. Solitamente lo vediamo così con contrasti inconciliabili nell'anima e pennellate eroiche tipicamente del grand opera.
Ernesto Petti è Il sommo sacerdote di Dagon perfetto nel carattere sempre severo a ribadire il fondamento della tragedia. Bene anche Gabriele Sagona Abimelech e Roberto Scandiuzzi Un vecchio ebreo. Sparigliati i problemi oggettivi della complessità del dramma lungo i tre atti, la drammaturgia appunto non sorprende ma sostanzialmente funziona. La regia è per tutto convenzionale, con nero e chiaroscuri dominanti, l'atmosfera sempre sinistra e pericolosa, in particolare nella scena finale, ma ovunque nelle scene di Etienne Pluss, dalla città alla casa di Dalila quali far penetrare occasionalmente la luce e i colori ideati da Olaf Freese, perfino nel baccanale con la coreografia di Tomasz Kajdański. Il senso di oppressione viene valicato solo nel terzo atto, nel tempio di Dagon, che così risulta anche il più veloce, spezzando il ritmo. Con molti applausi e traboccante come una festa, il San Carlo ha accolto queste quasi tre ore di un lontano passato eroico mai recuperabile.
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