Makaya McCraven oltre il jazz
Il nuovo lavoro del batterista e compositore statunitense Makaya McCraven è un capolavoro apolide
La prima e unica voce che affiora nel nuovo album di Makaya McCraven, In These Times, è di Harry Belafonte: riesumata da un’intervista radiofonica del gennaio 1955 custodita nell’archivio di Louis “Studs” Terkel. Dice: «Non vorrei essere mai ricordato come qualcuno che si è opposto al progresso».
Affermazione calzante al profilo artistico del trentanovenne batterista, compositore e produttore nominato “astro nascente” dal consesso di critici del magazine “DownBeat” nel 2020, anno in cui acquisì visibilità reinventando l’ultimo lavoro di Gil Scott-Heron, I’m New Here, e ribattezzandolo We’re New Again.
Makaya McCraven esordì così nei ranghi della potente XL Recordings, ora editrice di quest’opera in combutta con Nonesuch e International Anthem, che gli diede fiducia e impulso dopo il suo trasferimento a Chicago nel 2007: partnership culminata nel doppio del 2015 In the Moment. Già allora era in evidenza il metodo praticato da McCraven, impegnato a setacciare un cospicuo giacimento di registrazioni ricavate da sedute d’improvvisazione, dal vivo o in studio, per ricavarne spezzoni da combinare poi utilizzando la tecnica del taglia-e-cuci alla maniera di Teo Macero con la band elettrica di Miles Davis.
In These Times è frutto di un procedimento analogo, iniziato sette anni fa, e segue cronologicamente il debutto del protagonista su Blue Note, Deciphering the Message, da lui confezionato attingendo al vasto repertorio dell’etichetta newyorkese e rimodulandone le forme attraverso il protocollo appena descritto. Gli indizi citati finora porterebbero al jazz, ma l’interessato dissente: «La parola jazz è nel migliore dei casi inadeguata, e nel peggiore offensiva, per esprimere ciò su cui ci applichiamo», ha dichiarato di recente a “Mojo”.
Preferisce chiamarla «organic beat music». All’ascolto suona dunque “jazz” quanto le avventure spirituali di Alice Coltrane o Don Cherry. Del resto, la stessa ascendenza familiare di McCraven racchiude una trama musicale complessa: il padre Stephen, batterista anch’egli, bazzicava un habitat frequentato – è vero – da Archie Shepp e Marion Brown, insieme però a esponenti marocchini della confraternita Gnawa, mentre per parte di madre – Ágnes Zsigmondi, cantante nata a Budapest – gli arrivava l’eco del folklore magiaro, che qui trapela dall’incantevole “Lullaby”, brano firmato da lei, introdotto dall’arpa ubiqua di Brandee Younger, sviluppato dal pizzicato d’archi e impreziosito dal gusto zigano della violinista bulgara Zara Zaharieva.
Affidata a una dozzina di musicisti, la dotazione strumentale è ampia: nell’episodio che apre e intitola il disco si percepisce addirittura un fraseggio di sitar, quando invece in “Seventh String” – sull’impressionante tessuto poliritmico imbastito dal capobanda – il principale ruolo da solista spetta al flauto di De’Sean Jones.
A quel punto, in sequenza viene “So Ubuji”, impregnato dagli umori afrolatini di vibrafono e marimba, con una punta di reggae in coda, e quindi ecco “The Knew Untitled”, dove svetta alla chitarra l’estro asimmetrico di Jeff Parker dei Tortoise, e il conclusivo “The Tide”, l’architettura del quale rimanda all’hip hop di scuola Madlib. Stupisce e affascina la densità degli argomenti esposti in poco più di 40 minuti, dall’esotismo cameristico di “The Fours” alle vaghe suggestioni cinematografiche evocate – pensando forse a Morricone? – in “Dream Another”.
In These Times è perciò un album di fenomenale intensità e intelligenza straordinaria: diciamo pure capolavoro.