La Resurrezione di Aix
Ricco programma per il Festival di Aix-en-Provence con la Sinfonia n. 2 di Mahler allestita da Romeo Castellucci, il Moïse et Pharaon di Rossini e Woman at Point Zero di Bushra El-Turk
Non è mai stata così ricca la programmazione del Festival di Aix-en-Provence. Tornato alla normalità piena dopo un paio di edizioni in parte smaterializzate in programmi pensati per la diffusione in streaming, il festival presentava, oltre a numerosi concerti e recital, ben dieci produzioni di teatro musicale tutte legate in maniera più o meno esplicita al tema della rinascita. Fra queste, tre erano presentate in forma di concerto e due in prima assoluta. Il tributo alla vocazione originaria di festival mozartiano non manca ma ridotto a un solo titolo, Idomeneo in curiosa salsa giapponese a cura di Satoshi Miyagi con un ottimo cast e lo straordinario ensemble Pygmalion diretto da Raphaël Pichon, presenza stabile del festival. Proprio da una precedente esperienza mozartiana ad Aix-en-Provence con Pichon, cioè il Requiem del 2019, è nata l’ispirazione di Résurrection, spettacolo di punta dell’edizione 2022 firmato da Romeo Castellucci.
Ridare vita attraverso il ricordo
Sfida impossibile per diversi aspetti, in primo luogo per l’irrappresentabilità, almeno sulla carta della materia musicale alla base del progetto, cioè la monumentale Sinfonia n. 2 in do minore di Gustav Mahler (così come irrappresentabile era il Requiem di Mozart). In secondo luogo per la location scelta per questo progetto, cioè il relitto dello Stadium di Vitrolles, colossale opera brutalista dell’architetto Rudy Ricciotti costruita su una discarica di residui di lavorazione dell’alluminio, inaugurata nel 1996 come contenitore per eventi sportivi ma anche musicali ma praticamente mai utilizzata fino al definitivo abbandono alla fine degli anni Novanta. Lasciare Aix-en-Provence affollata di turisti per percorrere la trentina di chilometri che la separa da Vitrolles e arrivare davanti all’immenso cubo di cemento scuro segnato da graffiti urbani su un paesaggio lunare, se non fosse per le verdi colline circostanti, prepara “spiritualmente” all’esperienza alla quale le migliaia di spettatori sistemati nell’unica tribuna dello Stadium stanno per assistere.
L’immensa superficie scenica è coperta di fango. L’orchestra, sistemata in una buca ricavata fra la scena e la tribuna, è già al suo posto quando, da una delle due grandi aperture sul fondo della scena, entra un cavallo bianco che vaga su quella superficie fino all’ingresso della sua padrona a riprenderlo e vede una mano uscire da quel fango. La donna chiama aiuto e solo allora il brusco attacco di violoncelli e contrabbassi inaugura la lunga e dolorosa “Totenfeier”, la cerimonia dei morti, che costituisce il primo movimento della sinfonia mahleriana.
Benché nata come oggetto destinato al puro ascolto, la sinfonia mahleriana segue in effetti un disegno drammaturgico preciso. In occasione della prima esecuzione a Berlino nel 1896, per rispondere al critico Max Marschalk Gustav Mahler tracciò una sorta di guida per non perdersi nell’universo visionario della sua Sinfonia n. 2, presentata come seguito della sua precedente Sinfonia, “Titano”: «Ho chiamato ‘Totenfeier’ il primo movimento e se vuole saperlo si tratta dell'eroe della mia Sinfonia in re maggiore che io porto a seppellire e la cui vita osservo riflessa in un limpido specchio, come in una visione dall’alto. E intanto pongo la grande domanda: Perché sei vissuto? Perché hai sofferto? È tutto questo solo un grande, atroce scherzo? A queste domande dobbiamo dare una qualche risposta, se il nostro destino è continuare a vivere o anche solo continuare a morire! Chi anche una sola volta nella vita si è sentito risuonare dentro questa domanda deve dare una risposta. Questa risposta io do nell’ultimo movimento». Risposta che Mahler affida alle parole dell’inno di Friedrich Klopstock nel coro finale: “Risorgerai, sì risorgerai, mia polvere / dopo un breve riposo! / Vita immortale! Immortale / vita ti darà Colui che ti chiamò. / Di nuovo sarai seme per rifiorire.”
Non è quella traccia drammaturgica che Castellucci segue per la sua Resurrezione, che non ha niente di cristiano. Sulla scena si consuma un altro rito, quello del lento disseppellimento di cadaveri da una grande fossa comune da parte di un piccolo esercito di eroi anonimi in tuta bianca dell’UNHCR (sono gli attori senza parola Maïlys Castets, Simone Gatti, Michelle Salvatore, Raphaël Sawadogo-Mas oltre a numerosi figuranti). È un lavoro di scavo fatto con le mani, che attraversa il primo movimento, e quindi il secondo e poi, quando inizia il terzo, sotto una tela si scopre una massa scomposta di corpi con numerosi bambini. Inevitabile non pensare alle immagini di massacri silenziosi che ci consegna anche il nostro complicato presente. Solo quando il contralto intona i primi versi di Urlicht – “… L’uomo è nel più grande patimento / L’uomo è nella più grande angoscia / Preferirei essere in cielo …” – quell’esercito senz’armi in tuta bianca si arresta per un attimo come in un momento di riflessione collettiva davanti all’orrore. E poi lentamente si chiudono i sacchi con quei corpi ancora anonimi per caricarli nei furgoni, mentre una donna cerca ancora disperatamente tracce di vita nell’enorme cratere.
Nel Requiem di Mozart il filo drammaturgico era un elenco straziante di tutto ciò che l’umanità ha perduto per sempre a tessere il filo. Qui invece è l’incessante recupero di quei corpi strappati alla terra, uno ad uno, per tentare di ridare loro la dignità di individui attraverso un’identità che li faccia risorgere nella memoria di chi sopravvive. È questo il senso, assolutamente laico, della riflessione dolorosa sulla resurrezione secondo Castellucci, che sembra piuttosto prendere ispirazione dai versi intonati dal contralto (e ripresi dal soprano) nel movimento finale: “Credi, mio cuore, credi: / nulla andrà perduto per te! / Tuo è, tuo, sì tuo quello a cui anelavi! / Tuo quello che hai amato, per cui hai lottato! / Credi, non sei nato invano! / Non invano hai vissuto, sofferto! / Ciò che è nato deve perire! / Ciò che è passato, risorgere!” mentre sulla scena rimasta ormai vuota scende una pioggia scrosciante, che rimarginerà il grande cratere ormai svuotato ma non potrà cancellare quell’enorme ferita destinata a restare impressa nella nostra memoria di uomini.
Se Romeo Castellucci è destinato a dividere in ogni occasione (e anche in questo caso non sono mancate le voci critiche soprattutto sull’opportunità di dare una veste scenica a un lavoro puramente musicale), non è così per l’eccezionale esecuzione dell’Orchestre de Paris guidata con precisione analitica ma teatralmente pulsante di Esa Pekka Salonen, un direttore che stupisce sempre per la capacità di scavare nel profondo e di restituire una lettura coerente e conseguente anche a composizioni complesse. Aggiungono valore le prestazioni nel segno di una meditata introspezione del contralto Marianne Crebassa e del soprano Golda Schultz e naturalmente quella del Coro dell’Orchestre de Paris con il Jeune Chœur de Paris istruiti da Marc Korovitch, protagonisti di un finale davvero emotivamente toccante.
Lotta di classe nell’antico Egitto
Si muove lungo coordinate più tradizionali la produzione in alternanza con l’Idomeneo sul palcoscenico del Théâtre dell’Archevêché, Moïse et Pharaon di Gioachino Rossini, rifacimento per l’Opéra di Parigi del napoletano Mosè in Egitto del 1818. Fra le due opere intercorrono solo nove anni ma il quadro è completamente cambiato: certo si tratta sempre di Rossini, ma la freschezza di ispirazione e le innovazioni della versione napoletana cedono il passo alle consolidate convenzioni della scena parigina. Per questo debutto assoluto a Aix-en-Provence arriva l’esperto direttore rossiniano Michele Mariotti, brillante nei molti momenti del Rossini italiano ma piuttosto compassato e poco avvincente in quelli del Rossini francese. Guida comunque con perizia l’Orchestra dell’Opéra de Lyon, lo straordinario Coro dell’Opera de Lyon e il cast vocale piuttosto disuguale che ha in Michele Pertusi un solido protagonista, in Vasilisa Berzhanskaya una Sinaïde grandiosa nella scena “Ah! d’une tendre mère” del secondo atto, e in Jeanine De Bique una Anaï sensibile e precisa nel canto. Deludono invece Pene Pati, un Aménophis estraneo allo stile rossiniano e in evidente sforzo nella tessitura acuta, e Adrian Sâmpetrean, un Pharaon poco più che corretto ma poco partecipe dell’azione. Fra i ruoli minori, non deludono invece Géraldine Chauvet, una sensibile Marie, Mert Süngü, un Eliézer vocalmente molto preciso, e, nel campo nemico, Edwin Crossley-Mercer nel doppio ruolo di Osiride e voce misteriosa ma anche Alessandro Luciano nel piccolo ruolo di Aufide ma assai ben cesellato.
Per la realizzazione tocca invece al regista Tobias Kratzer, che dopo la nativa Germania comincia a mietere molti consensi anche in Francia, soprattutto per una presunta lettura politica dell’opera rossiniana. Forse, ma anche per questo Moïse et Pharaon il regista attinge a un metodo tanto rodato quanto poco originale: semplificazione drammaturgica “ad usum Delphini” di inevitabile impronta didascalica e piuttosto ingenua, abiti moderni (unica eccezione il profeta che è vestito come Charlton Heston nei Dieci comandamenti) per far sentire la vicenda biblica più vicina alla sensibilità contemporanea, e una consueta dose abbondante di goliardico sarcasmo. In due parole, gli Egizi sono i moderni tecnocrati del capitalismo finanziario in completo gessato e tailleur, mentre gli Israeliti sono i migranti ridotti a vivere in miseri slum (i costumi e le scene sono di Rainer Sellmaier). Le trovate “modernizzanti” si sprecano – basti dire che la piaga delle tenebre è un blackout che impedisce ai tecnocrati di utilizzare i loro computer e che la principessa siriana destinata a Aménophis è una Instagram influencer – fino a quella del finale, l’atteso passaggio del Mar Rosso, risolto con una semplice proiezione su un sipario in proscenio. Ma non basta: Kratzer si diverte a mostrare anche l’annegamento dei tecnocrati in grisaglie e tailleur con il coro degli israeliti che osserva dalla platea. E per finire, il cantico finale “Chantons, bénissons le Seigneur!” (aggiunta della versione parigina) vede il coro osservare una spiaggia di spensierati bagnanti stesi al sole e del tutto indifferenti a quel canto. E la verga di Mosè non è che un semplice ramo trasportato dal mare su quella spiaggia. Il destino dei migranti è sempre lo stesso.
Per tutte le donne, soprattutto quelle senza voce né volto
Delle due novità del cartellone 2022 con Il viaggio, Dante di Pascal Dusapin, Woman at Point Zero della compositrice Bushra El-Turk, britannica di famiglia libanese, è un recupero della scorsa edizione. Indicata dalla BBC come una delle 100 donne “most inspiring” oggi, la quarantenne compositrice ha già all’attivo commissioni importanti per la London Symphony Orchestra, la BBC Symphony Orchestra, la London Sinfonietta, l’Orchestre National de Lorraine, l’Orchestra Filarmonica del Libano oltre all’esecuzione di un suo pezzo ai BBC Proms nel 2018.
Per questo suo nuovo lavoro presentato in prima assoluta al Pavillion Noir dopo un assaggio a Festival Shubback a Londra nel 2017, Bushra El-Turk parte dal romanzo omonimo del 1975 dell’egiziana e attivista femminista Nawal El Sadaawi del 1975, ridotto a libretto da Stacy Hardy. Nel libro si racconta dell’incontro della scrittrice con Fírdaus (Paradiso in arabo), una donna in attesa di essere impiccata in una prigione del Cairo per l’omicidio del protettore. Nel giorno che precede l’esecuzione, la donna (Fatima nell’opera) dapprima resiste e poi si apre alla sua intervistatrice (Sama) rivelando un vissuto drammatico fatto di violenze fin da giovanissima e di sfruttamento maschile che la costringono anche alla prostituzione nella sua ricerca di libertà dall’oppressiva società patriarcale. Dichiaratamente militante, l’opera intreccia abilmente linguaggi espressivi molto diversi, compresi estratti audio documentali di Aida Elkashef. Dima Orsho (Fatima) intreccia al parlato stili di canto lirico ma anche orientale e jazz, così come Carla Nahadi Babelegoto (Sama) ricorre a un declamato molto libero in dialogo con gli strumenti dei sei membri dell’Ensemble Zan diretto sulla scena dall’energica Kanako Abe, che partecipano come un coro con frammenti di parole o di suoni ripresi dai dialoghi fra le due donne. Molto accattivante l’impasto timbrico prodotto da uno strumentario che combina ecletticamente la tradizione occidentale con quella Mediorientale e dell’Estremo Oriente, una diversità dall’evidente valore simbolico.
L’allestimento firmato dalla regista Laila Soliman sfrutta efficacemente lo spazio unico disegnato da Bissane Al Charif per le due protagoniste e l’ensemble musicale, uno spazio circoscritto come quello del carcere che si apre su immagini, curate da Bissane Al Charif e Julia König, che mostrano donne che hanno condiviso destini simili alla protagonista in momenti e luoghi diversi. Se una resurrezione è ancora possibile, deve forse cominciare proprio da quelle donne senza voce né volto.
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