Mass di Bernstein per la prima volta in Italia in forma scenica  

Tanto pubblico e grande successo per il ritorno dell’Opera alle Terme di Caracalla dopo due anni al Circo Massimo

Mass (Foto Fabrizio Sansoni)
Mass (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Roma, Terme di Caracalla
Leonard Bernstein, Mass
01 Luglio 2022 - 05 Luglio 2022

Nel 1971 a Leonard Bernstein fu commissionata una nuova composizione per inaugurare il Kennedy Centre di Washington e al contempo per onorare la memoria del presidente Kennedy: nacque così Mass.  Nonostante il titolo, non è una messa da cantare in chiesa ma “a Theatre Piece for Singers, Players and Dancers”. I cardini di Mass  restano i testi della messa cattolica, cioè i cinque brani dell’ordinarium  musicati migliaia di volte: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus-Benedictus, Agnus Dei. Ma Bernstein mette in musica anche altre parti della messa, Introitus, Offertorium, Communio e aggiunsse vari Tropi,  cioè quei canti su testi non liturgici che nel Medioevo venivano aggiunti alla messa, finché il concilio di Trento li vietò perché veicolavano idee estranee e anche contrarie alla dottrina cattolica.

Sono proprio questi tropi moderni in inglese che, in dialogo e spesso anche in netto contrasto con gli antichi testi liturgici in latino, determinano la particolarità di Mass, che non è una celebrazione liturgica ma un modo per parlare di valori fondamentali per l’umanità, spesso dimenticati dalla chiesa, come la libertà, la solidarietà, la fratellanza e soprattutto la pace. Bernstein stigmatizza quelle persone che ipocritamente travisano la religione per giustificare i propri desideri di potere e di ricchezza. E non teme di affrontare anche questioni metafisiche, sicuramente non nuove ma eternamente valide. Dio esiste? Se esiste, perché è lontano e indifferente alle vicende umane? E

I protagonisti sono il Celebrante e i fedeli, che lo contestano e contrappongono alle parole della liturgia i loro dubbi, scontentezze, speranze e accuse. E i fedeli sono le persone che si incontrano nelle strade di una città americana, quindi cantano (e ballano) musica rock, jazz, blues, gospel. E qui entra in campo la musica, che è la vera carta vincente di Mass, al di là dell’argomento, che indubbiamente è importante e coinvolge tutti, fedeli e atei, ma che forse è superiore alle possibilità del teatro musicale, nonostante Bernstein si dimostri abilissimo ad usare non solamente le note ma anche anche le parole (è lui l’autore dei testi, in collaborazione con Stephen Schwartz) e ad articolarle in un linguaggio molto teatrale.

Ma la carta vincente è – lo ripetiamo – la musica, com’è ovvio che sia, quando l’autore ha l’istinto musicale infallibile di Bernstein. Molti numeri musicali, come il delizioso Dubing dubang dubong,  sarebbero stati perfetti per un musical  di Broadway. Ma l’ambizione di Bernstein era andare oltre il musical e creare un nuovo genere di opera lirica, popolare e americana, tanto che anche West side story  non venne da lui definita musical  ma lyric theater.  Le somiglianze tra questi due lavori sono moltissime: per esempio, hanno in comune un numero musicale inventato a partire dallo schiocco delle dita della mano, che è un momento iconico di West side story  e che torna in Mass.  In entrambe c’è molto rock, moltissimo jazz e qualche pezzo di spessore sinfonico, ma in Mass  si ascoltano anche lontane reminiscenze di canto gregoriano, velate citazioni della Nona Sinfonia  di Beethoven e perfino un po’ di dodecafonia (negativamente connotata come arida e disumana). Questi salti stilistici non sono un limite o un difetto ma una marcia in più, perché Bernstein riesce a creare una naturale continuità tra materiali così disparati e soprattutto sa usare questi continui e improvvisi cambi di registro per accrescere la teatralità della sua musica. Il risultato è assolutamente irresistibile.

Personalmente, ho trovato però debole il finale, il cui facile e conformista ottimismo all’americana contraddice le domande e i dubbi di tutta la parte precedente. E anche la musica diventa allora un po’ stucchevole, prima con una canzoncina semplice, dolce e zuccherosa delle voci bianche su uno sfondo di arpe, poi con una consolatoria preghiera dell’intera compagine vocale.

Esecuzione ottima. In questo mix di musica rock, jazz e classica i complessi artistici del Teatro dell’Opera si sono dimostrati perfettamente a loro agio, disinibiti, scatenati, convinti e felici. Brava l’orchestra, bravo il coro, bravo il corpo di ballo. Dirigeva il venezuelano Diego Matheuz, che ricordiamo come un giovane di belle speranze e che, dopo qualche anno di eclissi, abbiamo ora ritrovato in ottima forma e particolarmente a suo agio in questa musica molto fisica, che non pone grossi problemi stilistici. I numerosi cantanti solisti venivano in primo piano soltanto per qualche breve momento, con l’eccezione del protagonista, il baritono Markus Werba, che ha sostenuto con autorevolezza il ruolo del Celebrante.

Firmava la regia Damiano Michieletto, affiancato dai fidi Paolo Fantin per le scene e Carla Teti per i costumi. La firma del regista veneziano era riconoscibile in alcune idee originali, che andavano oltre il testo di Bernstein ma non apparivano pretestuose o forzate. Ne ricordiamo una sola, a titolo di esempio. Dapprima il Celebrante appare dietro una lunga tavola, circondato da fedeli; sono più di dodici ma il rimando all’ultima cena è inequivocabile, dunque il Celebrante non è soltanto un tramite tra dio e gli uomini ma è Gesù stesso. Se fosse restato qualche dubbio, in seguito viene crocifisso a una croce immaginaria dipinta su un muro.

Era difficile distinguere nettamente il lavoro del regista da quello dei coreografi Sasha Riva e Simone Repele, perché la danza era un elemento fondamentale dell’azione e spesso danzatori, cantanti e figuranti si mescolavano inestricabilmente: non poteva essere che il risultato di un dialogo molto stretto e proficuo tra regista e coreografi. Quel che è certo che lo spettacolo funzionava benissimo, dinamico, trascinante, coinvolgente dall’inizio alla fine.

L’atteso ritorno dell’Opera alle Terme di Caracalla, disertata per due anni a causa della pandemia, è stato salutato da un pubblico numerosissimo e variegato, che mescolava appassionati dell’opera, del musical, del jazz e della danza. Tra gli spettatori anche il sindaco Gulatieri e poi volti noti del cinema, del teatro e della televisione. Molti turisti. E tantissimi applausi. 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Ad Amsterdam Romeo Castellucci mette in scena “Le lacrime di Eros” su un’antologia di musiche del tardo rinascimento scelte da Raphaël Pichon per l’ensemble Pygmalion 

classica

Madrid: Haendel al Teatro Real

classica

A Roma, prima con i complessi di Santa Cecilia, poi con Vokalensemble Kölner Dom e Concerto Köln