Jazz Is Dead festival vero (tendente al nero)
Si chiude a Torino Jazz Is Dead, che si conferma tra gli appuntamenti più originali in circolazione
La lingua italiana distingue tra “festival” e “rassegna”. Non necessariamente il primo termine suggerisce un’esperienza migliore del secondo: semplicemente significano cose diverse. Jazz Is Dead, che ha chiuso a Torino dopo tre giorni pienissimi (e due anteprime con Colin Stetson e Moor Mother – ci sarà anche un epilogo con Oren Ambarchi), ha fatto chiaramente la scelta di essere festival, con tutto ciò che questo comporta a livello di partecipazione, di esperienza e di – appunto – festa.
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Il successo di pubblico e di visibilità è stato tanto, ed è una buona occasione per riflettere, anche sul futuro di un evento che nel giro di cinque anni si è imposto come uno dei più originali in Italia per programmazione e formula adottata, e che ha ormai una dimensione pienamente internazionale. È un risultato importante soprattutto perché – è bene sottolinearlo – si tratta di un festival messo insieme senza fondi pubblici (organizza ARCI) e a ingresso gratuito.
Nato cinque anni fa nel “buco” lasciato dal Torino Jazz Festival – sospeso per un anno e convertito momentaneamente in una creatura (presto abortita) dal nome “Narrazioni Jazz” – Jazz Is Dead ha poi proliferato nello spazio lasciato libero dal suo più benvestito cugino, differenziando la programmazione verso musiche di ricerca, rumorose e tendenti al nero, all’apocalittico (quando non direttamente al sepolcrale) che molto spesso con il “jazz” comunemente inteso non hanno molto a che fare.
Allo stesso tempo ha saputo intercettare anche un certo pubblico devoto al "vero" jazz, mettendo in cartellone maestri riconosciuti vecchi e nuovi. Nelle passate edizioni sono passati di qui Evan Parker, Peter Brötzmann, The Necks… quest’anno Mats Gustafssonn e Fire!. Tutti ricontestualizzati non mettendo loro intorno altro jazz più “confortevole” ma – al contrario – contornandoli di elettronica cupa, di hip hop di ricerca, di contemporanea eccentrica, di doom metal e noise. Risemantizzandoli in un certo senso, dando alla loro musica un significato diverso (e potenzialmente pure più interessante).
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Non ogni cosa che passa per Jazz Is Dead è per tutti, questo è abbastanza chiaro. Ma tutto evidentemente punta verso una direzione: in mezzo a tante rassegne che si costruiscono su quello che passa il convento, sui tour di passaggio, va dato atto al direttore artistico Alessandro Gambo (e al suo staff: oltre 40 i volontari) di aver saputo tenere la barra dritta per costruire un’idea di festival che – piaccia o non piaccia – è originale e unica.
Anche perché, al netto di un cartellone che sembrerebbe essere tarato sul lettore medio di The Wire (non prendete la cosa necessariamente come un complimento…) il pubblico ha risposto alla grande, con oltre 2000 persone nella serata di sabato a contendersi l’ingresso per ascoltare The Bug, e 7000 presenze fra festival e anteprime. Più del numero, tuttavia, stupisce la composizione, che va dai giovani universitari (la prova sono le decine di bici parcheggiate fuori) fino agli over 60. Il pubblico dei festival di elettronica mescolato con quello del jazz, con le nicchie del metal estremo, con i venticinque lettori di The Wire… Tutti insieme ammassati dentro una ex fabbrica fatiscente.
La gratuità ha certo qualche responsabilità, così come il clima piacevole e la possibilità bersi una birretta schiamazzando fino a tardi (siamo lontani dal centro, lontani dalle case, si può fare casino). Ma in fondo l’obiettivo di un festival “per la cittadinanza” (qualunque cosa voglia dire) dovrebbe essere proprio quello di esporre pubblici diversi a musiche diverse, di rompere la comfort zone degli ascolti privati per farci scoprire qualcosa di nuovo, da vivere insieme ai nostri simili e a chi, normalmente, non avrebbe mai incrociato il nostro percorso.
Nell’intervista che gli abbiamo fatto la settimana scorsa, The Bug aveva detto Jazz Is Dead «è un festival a cui potrei intervenire anche solo come spettatore», ed è il complimento migliore. Era in effetti lì, dietro il palco, 24 ore dopo il suo set, a pubblicare Stories di fianco a Mats Gustafsson. In questo Jazz Is Dead è festival.
Rimane da dire di quanto ascoltato. Fra le cose migliori, The Bug con Flowdan: aveva anticipato di aver chiesto potenza extra per l’impianto, possiamo confermare che l’ha usata tutta. Entusiasmante Anteloper, il duo newyorkese della trombettista e cantante Jaimie Breezy Branch (anche alle prese con varia elettronica) e del batterista Jason Nazary: un’ora senza soluzione di continuità, tra afrobeat, soul, psichedelia e improvvisazione. Poderoso, come al solito, Fire! di Mats Gustafsson, che si diverte un sacco senza troppi retropensieri: un giro di basso, una batteria inventiva, palla in mezzo e con il sax baritono basta spingerla dentro (dice un caro amico che Gustafsson è il Bobo Vieri del sax, bomber vero sempre e comunque). Sul versante hip hop, da approfondire la proposta di MC Yallah, esplosivo il set di Dälek. E poi menzione per le molte cose – purtroppo – mancate, da Stephen O’Malley a Charlemagne Palestine, a Pietra Tonale, agli Holy Tongue…
Il futuro imporrà probabilmente delle scelte. Lo spazio del Bunker – che ha sostituito il più piccolo ex-cimitero di San Pietro in Vincoli – è perfettamente adeguato per quel vibe underground/post-apocalittico che trasmette grazie ai suoi graffiti, alle ciminiere in lontananza al tramonto e ai cessi prevedibilmente intasati (a metà strada fra Trainspotting e The Walking Dead). Ma Jazz Is Dead è cresciuto e sta attirandosi attenzioni ben oltre le mura cittadine: la diretta di Radio Tre nell’ultima serata (per il live di Fire! e Anteloper) lo dimostra. Bisognerà capire come crescere ancora, rimanendo festival vero.
Per ora, si torna a casa soddisfatti.
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