Grande musica russa a Santa Cecilia

Tugan Sokhiev ha diretto Rachmaninoff, Borodin e Čajkovskij

Tugan Sokhiev
Tugan Sokhiev
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Tugan Sokhiev
05 Maggio 2022 - 07 Maggio 2022

Non si può dire che Tugan Sokhiev sia un direttore famoso in Italia. Ma nemmeno sconosciuto. Per limitarci a Roma, ha debuttato all’Accademia di Santa Cecilia nel 2008, a soli trent’anni, poi vi è tornato altre due volte e sarebbe tornato ancora nelle due ultime stagioni, se i vari lockdown non l’avessero impedito. Nel 2014 è stato nominato direttore musicale del Bolshoi di Mosca, il principale teatro d’opera della Federazione Russa insieme al Mariinskij di San Pietroburgo, diretto da Valerij Gergiev. È una singolare coincidenza che entrambi questi direttori siano originari di una piccola e sconosciuta città, Vladikavkaz, capitale dell’Ossezia del Nord (per la precisione Gergiev è nato a Mosca, ma la famiglia era originaria di Vladivakzav e lì è tornato a tre anni d’età ed è cresciuto). Ed entrambi hanno studiato con Ilya Musin, leggendario docente di direzione d’orchestra al Conservatorio della ex Leningrado ora San Pietroburgo.

Dunque, nonostante la differenza di ben ventiquattro anni d’età, le loro vite hanno seguito percorsi paralleli, finché non hanno preso strade divergenti allo scoppio della guerra con l’Ucraina: Gergiev non ha voluto smentire la sua vicinanza a Putin e - a torto o a ragione - è stato messo al bando da tutte le istituzioni musicali occidentali, mentre Sokhiev si è dimesso dal Bolshoi e per par condicio anche dall’altro teatro di cui era direttore musicale, il Capitol di Tolosa, affermando: “Non ho mai sostenuto e sarò sempre contro qualsiasi conflitto in qualsiasi forma”. Ma aggiungendo anche: “Presto mi verrà chiesto di scegliere tra Čajkovskij, Stravinskij, Šostakovič e Beethoven, Brahms, Debussy. Sta già succedendo in Polonia, paese europeo, dove la musica russa è proibita. Non posso vedere i miei colleghi, artisti, attori, cantanti, ballerini, registi minacciati, trattati irrispettosamente e vittime della cosiddetta cancel culture”.

Fortunatamente in Italia, dopo che un’università ha messo al bando perfino Dostoevskij (salvo poi pentirsi)  siamo rinsaviti e Sokhiev ha potuto e presentarsi a Roma senza il minimo problema con un programma totalmente russo: la Cantata “Primavera”  di Rachmaninoff, le Danze polovesiane  dal Principe Igor  di Borodin e la Sinfonia n. 5  di Čajkovskij. Per inciso, perfino durante gli orrori della seconda guerra mondiale questi autori non furono messi all’indice in Italia, così come i musicisti italiani non furono messi all’indice nei paesi a cui avevamo dichiarato guerra. 

La Cantata di Rachmaninoff è un lavoro giovanile, composto nel 1902, quando le sue ambizioni come compositore fossero ripetutamente frustrate dalla critica e anche dal pubblico, che gli procurarono una profonda depressione e lo convinsero a dedicarsi principalmente alla carriera di virtuoso del pianoforte. Il testo di questa Cantata è su versi di Nikolaj Nekrasov, uno dei più importanti poeti romantici russi. Racconta un tradimento, ma non è la solita storia di corna, perché la moglie è descritta dal marito stesso come una donna virtuosa che è incorsa in un “incidente”: questo provoca più depressione che collera nell’uomo, che comunque prende in considerazione l’uxoricidio, all’epoca la soluzione più semplice e naturale, ma l’arrivo della primavera rappresenta la nascita di un mondo nuovo, che lo rasserena e lo placa. La musica di Rachmaninoff non è assolutamente enfatica e non esaspera i lati drammatici del testo: il baritono non si lancia in invettive melodrammatiche ma piuttosto medita incerto e dubbioso su quel che è accaduto, lasciando il ruolo di vero protagonista al coro, che descrive l’arrivo della primavera come una prodigiosa rinascita. Si apprezza l’assenza o almeno la riduzione del turgore che affligge tanta musica di Rachmaninoff ma questo non basta a rendere interessante questo brano. Ottimi il baritono Gerry Magee, l’orchestra e il coro.

Se questo concerto resterà memorabile è per merito degli altri due brani in programma.

Ritmi, melodie, armonie e timbri orientaleggianti delle Danze polovesiane  dal Principe Igor  di Borodin sono l’invenzione o piuttosto il sogno di un russo e non hanno nulla a che vedere con la musica di questa popolazione del ceppo etnico turco, che è scomparsa da secoli e ha lasciato scarsissime tracce della sua cultura. Sokhiev ha esaltato l’esotismo voluttuoso di queste danze e il loro trascinante e irresistibile crescendo, che entusiasmano ogni ascoltatore fornito di buone orecchie e capace di abbandonarsi al piacere dell’ascolto al di là di fisime intellettualistiche: successo clamoroso.

Ma il meglio doveva venire con la Sinfonia n. 5  di Čajkovskij, di cui abbiamo ascoltato un’esecuzione veramente eccellente. Sokhiev non ingigantisce i tormenti e le nevrosi dell’autore e non si compiace di sprofondare nei gorghi del suo fatalismo pessimista ma si abbandona senza remore ai grandi slanci melodici di Čajkovskij e immerge l’ascoltatore in forti passioni romantiche.  I ‘pianissimo’ non sono mai sfibrati ma sempre rotondi e pieni di suono e i ‘fortissimo’ travolgenti ma mai assordanti, nemmeno nella fanfara finale, che altri fanno diventare roboante e sovraccaricano di retorica. Il direttore dimostra una grande arte del fraseggio e un perfetto controllo dell’orchestra ma all’occorrenza dà anche fiducia ed autonomia agli strumentisti, in particolare quando si tratta degli importanti interventi solistici dei fiati, che alla fine Sokhiev ha fatto alzare uno ad uno per applaudirli personalmente insieme al pubblico.

Dopo l’ostracismo a Gergiev e il ritiro di Temirkanov per motivi di salute, il quarantaquattrenne Sokhiev si propone come il più grande direttore russo dei nostri giorni. Gli applausi del pubblico sono stati talmente entusiastici e sonori che, chiudendo gli occhi, si poteva avere l’illusione che l’auditorium fosse pienissimo, mentre i posti vuoti erano purtroppo molti, come sempre in questi ultimi tempi. Eppure l’offerta musicale di Santa Cecilia è ricca come e forse anche più del solito, ma evidentemente il pubblico fatica a risvegliarsi dall’incubo del covid.

 

 

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