Il ritorno dei Lombardi alla Fenice
Assente dal teatro veneziano dal 1843, l’opera del giovane Verdi torna in un allestimento di Valentino Villa e la direzione di Sebastiano Rolli
Mancava dal 1843 dal palcoscenico del Teatro La Fenice, ossia dallo stesso anno del debutto scaligero. I lombardi alla prima crociata, opus numero quattro del catalogo operistico verdiano, stesso filone risorgimental-patriottico del Nabucco di meno di un anno precedente con cui condivise il successo di pubblico ma un po’ meno di critica. “Dovessi morire, l’opera vincerà”: parola di Emilia Frezzolini-Poggi, la prima Giselda. Ebbe certamente ragione l’11 febbraio del 1843 e negli anni successivi: fu la prima opera di Verdi ad essere eseguita a New York nel 1847 e lo stesso Verdi ne curò un rifacimento in versione grand opéra per la parigina Salle Peletier nello stesso anno. Vinse un po’ meno sulla distanza, poiché i Lombardi non si può dire siano entrati nell’immaginario melodrammatico popolare come Nabucco, fatto salvo il celebre coro “O Signore dal tetto natio”, pezzo immancabile nelle antologie coristiche verdiane. Non sarà un capolavoro nemmeno il libretto di Nabucco ma funziona, a differenza di quello dei Lombardi, firmato dallo stesso Temistocle Solera, che crea, come deve, occasioni di concertati e cabalette a raffica ma soffre di non poche incongruenze sul piano della drammaturgia con scarti temporali e narrativi, personaggi che spariscono e trovate poco verosimili, colpa, si dice, della prolissità della fonte, ossia l’omonimo poema epico in versi in quindici canti (ridotti a quattro atti) di Tommaso Grossi del 1826. Che poi, alla fine, il pubblico non manchi mai di manifestare entusiasmo anche per quest’opera, a Milano nel 1843 come a Venezia nel 2022, lo si deve tutto al fiuto teatrale di Verdi, magari ancora in fase embrionale ma già infallibile.
Detto del soggetto non proprio lineare, a una messa in scena davvero efficace gioverebbe lavorare di sintesi, magari partendo da qualche spunto di attualità del soggetto, che non manca, come sempre quando si parla di crociate e dell’eterno scontro fra Oriente e Occidente. Nel nuovo allestimento del Teatro La Fenice, però, il regista Valentino Villa aggiunge più che togliere ma soprattutto appare incerto su quale direzione drammaturgica prendere, restando in bilico fra qualche timido gesto da “regia di concetto” e un più rassicurante conformismo melodrammatico con i cantanti allineati sul proscenio e il coro dietro con tutti rigorosamente immobili. Il confronto fra Oriente e Occidente si limita a delle citazioni parallele fra Bibbia e Corano che riguardano Caino e Abele, le due figure nelle quali vengono identificati i due fratelli-rivali motore della vicenda, Arvino e Pagano. Salvo che, nel libretto di Solera, Pagano tenta soltanto di uccidere Arvino in un paio di occasioni senza mai riuscirci e per contendersi una donna, Viclinda. Fallito anche il secondo tentativo di fratricidio, che finisce in parricidio per errore, dopo la fuga in Palestina e l’espiazione eremitica (in un relitto di jeep), Pagano muore in odore di santità dopo il tardivo pentimento. Resta irrisolto il senso di alcune scelte registiche, come, ad esempio, la presenza di due bambini in scena prima dell’apertura del sipario e, nel seguito, di due giovani, vittima e carnefice, presso la fonte (del Siloe?) che vogliono insistere forse sul parallelo con i due fratelli biblici. Per tacere di scelte discutibili, come l’assalto finale dei crociati a Gerusalemme ridotto ad atto teppistico ai danni di un locale mini market in stile “Regietheater”, che immiserisce il climax dell’azione ed è anche debole sul piano di una lettura politica.
Mini market palestinesi e tripudio di kalashnikov giocattolo a parte, l’intenzione di dare quanto meno un aspetto contemporaneo all’allestimento è chiara nella scenografia dal segno essenziale di Massimo Checchetto e anche di più nei costumi dalle linee non esattamente rigorose di Elena Cicorella, che sceglie un “total white” per i crociati e una dominante nera per i musulmani in nome della chiarezza.
Per questo ritorno dell’opera verdiana, la partitura è quella dell’edizione critica curata da David R.B. Kimbell per University of Chicago Press e Casa Ricordi fedele all’autografo verdiano. Fedele invece a una certa tradizione areniana soprattutto nelle scene di massa è la direzione di Sebastiano Rolli, che non lesina sui decibel talora a scapito dell’equilibrio con il palcoscenico. I passaggi più belli della partitura, comunque, li fa apprezzare tutti come l’evidenza data alla cura strumentale di alcuni passaggi come nel “Salve Maria” di Giselda nel primo atto, nel lungo assolo del violino che apre il quarto atto e naturalmente nel “must dei must” ossia “O Signore dal tetto natio” davvero formidabile nell’esecuzione morbida e possente del Coro del Teatro La Fenice. Molto bene anche l’orchestra.
La distribuzione vocale è nel complesso adeguata alle non poche sfide del giovane Verdi, a cominciare da Roberta Mantegna, una Griselda che cresce sulla distanza, vocalmente sicura nonostante qualche forzatura negli acuti. Di Michele Pertusi, un Pagano dagli accenti nobili, esce la statura dell’interprete di livello, anche se la voce denuncia qua e là qualche usura. Ottima prova anche di Antonio Corianò, un Arvino vigoroso e dal bel piglio eroico, come di Antonio Poli, un Oronte di accattivante colore lirico. Adeguato il resto del cast da Adolfo Corrado(Acciano), Mattia Denti (Pirro), Marianna Mappa(Viclinda), Barbara Massaro (Sofia) fino a Christian Collia (il priore).
Sala esaurita alla prima e risposta del pubblico molto calorosa.
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