Prima italiana del Concerto per pianoforte di Adès, nello stesso giorno a Roma e Torino
È uno dei pezzi sinfonici di maggior successo degli ultimi anni a giudicare dal gran numero di esecuzioni in tutto il mondo
È difficile che un brano di musica sinfonica contemporanea diventi popolare ma il Concerto per pianoforte e orchestra di Thomas Adès c’è riuscito. Dopo la prima a Boston nel 2019 è stato eseguito decine di volte in tutto il mondo nel giro dei primi mesi e continua ad accumulare esecuzioni. Ora è arrivato per la prima volta in Italia, eseguito simultaneamente dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai a Torino (con Michele Gamba sul podio e Alessandro Taverna al pianoforte) e dall’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma. A Roma il direttore era Antonio Pappano e il solista Kirill Gerstein: è proprio per lui che Adès ha scritto questo non facile Concerto e a lui lo ha dedicato, dunque va considerato l’interprete per antonomasia di questo brano e questo è una garanzia assoluta per quel che riguarda la sua esecuzione. Si può quindi passare direttamente a parlare di questo lavoro dell’oggi cinquantenne compositore britannico, noto soprattutto ma non solo per le sue opere, tra cui Powder her face e The Tempest , eseguite con successo in mezzo mondo. Dunque va riconosciuto subito ad Adès un gran senso del teatro e anche un gran fiuto per il successo.
Egli stesso a proposito del suo Concerto per pianoforte ha scritto che “si comincia con Beethoven, si passa attraverso Berlioz, Čajkovskij e Stravinskij”. Effettivamente nel suo Concerto si trova un po’ di tutto, come le merci sugli scaffali dei supermercati. In questo caso è positivo che si tratti di merce contraffatta, perché almeno Adés reinventa a modo suo la musica del passato a cui allude. Però Beethoven non lo abbiamo proprio riconosciuto. Invece l’attacco jazzistico era puro Gershwin, sicuramente in omaggio al pubblico americano a cui era riservata la prima esecuzione. Poco più avanti si sentiva una turgida melodia tardoromantica alla Rachmaninov, da cui si passava direttamente ad un pianismo molto percussivo alla Bartok, che improvvisamente s’interrompeva per dar spazio ad una romanticheggiante cadenza (non improvvisata ma scritta per esteso da Adès). Ogni due minuti si saltava da un mondo musicale all’altro. Il secondo movimento era più coerente e concentrato e Adès dimostrava di saper sviluppare un’idea, se vuole. Nel terzo movimento si ricominciava, partendo da un’imitazione - che è sembrata ironica - delle avanguardie musicali degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso e arrivando ad un finale che era puro Prokof’ev. Che dire? La mia opinione traspare chiaramente dalle righe che precedono. Si deve pensare che quella del pubblico fosse espressa dagli applausi piuttosto calorosi tributati a Gerstein, che ha risposto con una breve e anodina Berceuse dall’opera Exterminating Angel dello stesso Adès. Però, cercando di captare le chiacchiere nell’intervallo, si sentivano soprattutto giudizi negativi o, nei casi migliori, perplessi.
Pappano aveva iniziato il concerto con quel piccolo capolavoro che è L’apprendista stregone di Paul Dukas, che non è un pezzo così joli e grazioso come diventa in Fantasia con Topolino come protagonista, ma è anzi piuttosto cupo e inquietante. Dopo l’intervallo ha diretto Così parlò Zarathustra di Richard Strauss. La sua bacchetta ha reso più che mai tellurico il profondo tremolo iniziale in pianissimo di contrabbassi e grancassa e più che mai esplosivo il sorgere del sole davanti alla caverna di Zarathustra, che ormai non si può ascoltare senza rivedere mentalmente le immagini iniziali di 2001. Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Queste prime ventuno battute erano talmente spettacolari che si poteva temere che poi ci sarebbe stato inevitabilmente un calo di tensione. Invece, dopo la lunga pausa e la misteriosa transizione, era altrettanto seppur diversamente teatrale anche il secondo episodio, quasi cameristico, affidato alla calda e sensuale melodia di due sole viole, due soli violini e due soli violoncelli, per di più con sordina.
Pappano trasformava il poema sinfonico del giovane Richard Strauss in una specie di melodramma senza parole e senza scene (a proposito, i valzer potrebbero figurare benissimo nel boudoir della Marescialla del Cavaliere della rosa). Ogni singolo episodio di questa smisurata partitura, che è effettivamente molto episodica, diventava teatrale, scenografico, spettacolare e anche effettistico. Era proprio quel che voleva Strauss, di cui si racconta che, quando circa un secolo fa venne a Roma per dirigere sue musiche a Santa Cecilia, disse all’orchestra di non preoccuparsi di far sentire ogni dettaglio ma di badare all’effetto complessivo. È un aneddoto che circola ancora e a cui Pappano sembrerebbe aver improntato la sua direzione, che forse lasciava in secondo piano alcuni particolare della splendida orchestrazione ma offriva dall’inizio alla fine all’ascoltatore uno spettacolo sonoro affascinante, sensuale, grandioso, senza un attimo di calo di tensione. Si può ben capire l’entusiasmo del pubblico e le numerose chiamate, che Pappano ha condiviso con l’orchestra, facendo alzare una alla volta le prime parti più impegnate (quindi praticamente tutte) e poi le intere sezioni.
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