Qualche volta, con malignità che non manca di centrare il bersaglio, si ha la sensazione che ormai si scriva di jazz solo per anniversari, decessi et similia. In realtà non è sempre così, tanto che ci eravamo dimenticati di "celebrare" qui i 100 anni dalla nascita di Tony Scott, nel giugno scorso.
Così, ormai lontani da quella data e a quasi 15 dalla morte del clarinettista, ho pensato di ripescare questo pezzo che avevo scritto per BlowUp nel 2011, quando uscì il film di Franco Maresco a lui dedicato. È un articolo che mi sembra ancora attuale e che non era mai comparso sul web.Ve lo ripropongo praticamente come uscì allora (non esisteva ancora Spotify), sperando che vi venga voglia di ascoltare la musica di questo incredibile musicista.
Chissà quando Tony Scott ha cominciato a capire che le cose non giravano per il verso giusto.
O chissà se l’ha mai capito!
L’ondata ristampatoria sembra lambire solo marginalmente la sua (già un po’ disordinata di suo) discografia e anche il solitamente pignolo sito di AllMusic ne liquida la biografia in una ventina di righe. Come se non bastasse ci si mette pure Google, che è assai più prodigo di link sull’omonimo regista di Top Gun che non sulle sue incredibili peripezie biografiche e musicali.
Non stupisce quindi che la sua storia - che a un certo punto si intreccia in modo un po’ sgangherato con le vicende del jazz italiano – abbia stimolato il lavoro di un regista come Franco Maresco.
«L’Italia non ha mai capito Tony Scott» si sente ripetere da più parti (in buona fede, ma con un pizzico di provincialismo e di quella sicumera post-mortem che non manca mai di manifestarsi dalle nostre parti), anche se a volte viene da chiedersi se non fosse proprio lui stesso a non capirsi più a fondo, spesso intento ad autocelebrarsi nei termini e nelle sedi meno appropriate (impossibile spiegargli che la patente di unsung hero non ce la si può dare da soli), pieno di aneddoti e rimpianti per un tempo che non sarebbe più tornato.
Eppure, musicalmente parlando, forse la cosa di cui più di tutte Tony Scott aveva bisogno e di cui ancora ha la sua figura, è quella di togliersi di dosso i drappi pesanti degli aggettivi e delle mitologie per riscoprire la forza del suo percorso espressivo, un lungo viaggio (mai termine sembra più azzeccato) che dalla New York dell’esplosione del be-bop giunge alle balere della provincia italiana, passando per l’Africa, il Giappone, l’Indonesia.
Dopo gli studi alla prestigiosa Juilliard School e il servizio militare, Scott si trova a vivere appieno l’incendiaria rivoluzione be-bop con uno strumento che non era molto "in": il clarinetto infatti, sia per qualità timbriche e di volume, che per la immediata associazione con Benny Goodman e quella swing-era di cui il bop rappresentava una chiara antitesi, sembrava un po’ un vecchio Garelli in una gara motociclistica. Eppure la musicalità di Scott e la sua fantasia di improvvisatore non mancano di colpire nel segno e il nostro diventa protagonista delle notti newyorkesi, sia con musicisti già affermati come Roy Eldridge e Art Tatum, sia con i giovani "hipster".
Le collaborazioni della seconda metà degli anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta sono tantissime e variegate, da Sarah Vaughan a Claude Tornhill, da Charlie Parker a Duke Ellington (nella cui Orchestra ha modo in una manciata di mesi di ingaggiare una furibonda rissa con Charles Mingus), per giungere a quella collaborazione con Billie Holiday che sarà fonte inesauribile di mitologia e a quella con un giovane Bill Evans, e uniscono jazz caldissimo e freddo, innovazione e tradizione, mestiere e impulso, testimoniati dalle non troppe registrazioni a proprio nome.
Nel mondo del jazz – che gli tributa nella seconda metà degli anni Cinquanta un bel grappolo di vittorie come miglior clarinettista nel referendum di Down Beat – prende piede una rivalità/dualismo tra Scott e Buddy De Franco: i due sono strumentisti molto differenti l’uno dall’altro, più istintivo e al tempo stesso più cool Tony, più apollineo ma hot Buddy (e intanto un Jimmy Giuffre vede assai più avanti di entrambi, ma questa è un’altra storia), il nostro sembra comunque assai più "avanti", ma alla fine degli anni Cinquanta comincia per lui quell’inquieto nomadismo che lo toglierà dal cuore delle vicende del jazz americano e lo proietterà verso sponde assai differenti.
Rattristato dalla morte di molti colleghi e curioso per natura dei suoni del mondo, Scott inizia a girare l’Europa, l’Asia, soffermandosi in Giappone e in Indonesia (con varie peripezie da spy-story che il film di Maresco non manca di narrare) e registrando quel Music For Jazz Meditation per clarinetto, koto e shakuhachi, che sarà tra i primi esempi di quell’esotismo sonoro tipico degli anni Sessanta e che getterà i semi della globalizzazione musicale a venire.
Lo Scott che torna negli Usa alla metà del decennio trova un mondo del jazz assai differente, certamente più spaccato tra ricerca e tradizione, certamente con meccanismi produttivi e promozionali differenti, nei quali il nostro non si inserisce se non sporadicamente, partecipando a molti concerti (con compagni molto diversi tra loro, da Jaki Byard a Bill Evans, passando per Collin Walcott) ma non lasciando grandi tracce discografiche.
Ricomincia quindi a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, quel nomadismo dilaniato tra fuga e avventura che lo porterà ancora in Europa e poi in Africa, continente che sentirà espressivamente molto vicino a sé, pur fatta la tara sulle dichiarazioni un po’ fanfarone di "negritudine" che Scott amava fare. Giunge quindi in Italia e ci giunge ovviamente nel momento sbagliato, in una penisola jazzisticamente ancora provinciale e poco strutturata (ma non sono proprio sicuro che in altri periodi avrebbe avuto miglior sorte…), nella quale si perpetuano e cronicizzano in mille rivoli e progetti quelle idiosincrasie che già emergevano dalle precedenti vicende.
Suona con tutti, qualche progetto interessante altri molto meno, usato alla bisogna come "mito" e scaricato quando diventa scomodo e verboso, privilegiando l’istinto a scapito di una qualsivoglia progettualità, attaccato a un mondo del jazz che – in quelle forme – non esiste più da anni e che ne è anche, sotto sotto, la contraddizione dello spirito. Incide per Soul Note, molto per la Philology, per giungere a quel doppio A Jazz Life che uscirà proprio al termine della sua vita.
Quale Tony Scott dunque? Quello che arrangia Banana Boat Song di Harry Belafonte o quello sbertucciato da Paolo Bonolis nell’odierno tritacarne televisivo? Il musicista libero e avventuroso di Both Sides Of Tony Scott o quello che si accompagnava ai jazzisti più conservatori e anacronistici della nostra penisola, ma che non mancava di "tenere a battesimo" qualche giovane talento come Emanuele Parrini?
Forse una riscoperta più intima e profonda del suo grande talento e della poliedricità dei suoi stili – che via via abbracceranno influenze africane, reminiscenze traditional, astrazioni alternate a irruenze – è possibile ed è demandata alla sensibilità di ciascun ascoltatore. Si può partire dai lavori con Bill Evans o da quelli a proprio nome tra il 1956 e il 1957, magari farsi cullare dalle seduzioni orientali o dagli interessanti progetti orchestrali in Germania alla fine degli anni Sessanta. Si scoprirà un Anthony Joseph Sciacca capace di parlarci ancora di quella pazza avventura che è il jazz.
Specialmente se si è mossi da una curiosità umana incontenibile, noncurante che le cose non vadano sempre per il verso giusto.
Tre dischi di Tony Scott da cui partire
Tony Scott – Both Sides Of (Rca, 1956)
Bill Evans/Tony Scott Quartet –Complete Recordings (Lonehill Jazz, 1959)
Tony Scott – Music For Zen Meditation (Verve, 1964)
Questo articolo è stato pubblicato su BlowUp #156 del maggio 2011.