La festa di Bergamo al concittadino Donizetti

Conclusa con successo l’edizione 2021 del Donizetti Festival Opera, che ha proposto nuove produzioni de L’elisir d’amore e La fille du régiment e della rara Medea in Corinto del maestro Giovanni Simone Mayr

"Medea in Corinto" (Foto di Gianfranco Rota)
"Medea in Corinto" (Foto di Gianfranco Rota)
Recensione
classica
Bergamo, Teatro Donizetti e Teatro Sociale
Donizetti Festival Opera - La fille du régiment, Medea in Corinto, L’elisir d’amore
19 Novembre 2021 - 05 Dicembre 2021

Buone notizie per la settima edizione del Donizetti Festival Opera, appena concluso. Mentre in altre realtà si piange davanti a sale semivuote, a Bergamo si festeggia un’edizione 2021 con numeri da record, dopo la triste parentesi della pandemia che soprattutto a Bergamo ha colpito duro. Merito certamente della voglia di tornare finalmente ad assistere a spettacoli dal vivo, di scelte di cartellone che hanno puntato su due infallibili “blockbuster” del repertorio comico donizettiano, ma anche di un ottimo lavoro “sul territorio” con eventi di coinvolgimento della popolazione in spazi aperti in città, ma anche con azioni mirate a gruppi, associazioni e istituzioni del territorio per favorire l’accesso soprattutto alle generazioni più giovani e, si spera, garantire un rinnovamento allo zoccolo duro del genere operistico, che soprattutto in Italia è sempre più anziano. Buone notizie anche la forte presenza di stranieri al festival (poco meno del 40% sul totale delle presenze) nonostante le restrizioni sanitarie, segno evidente che la formula funziona e interessa anche al di là delle Alpi.

"Medea in Corinto" (Foto di Gianfranco Rota)
"Medea in Corinto" (Foto di Gianfranco Rota)

Produzioni sul palcoscenico principale del Teatro Donizetti a parte, anche l’edizione 2021 proponeva una rarità al Teatro Sociale come nuova puntata del progetto #donizetti200. Nessuna produzione giovanile del bergamasco in questa edizione, ma un titolo del “bavarese orobico” Giovanni Simone Mayr, grande compositore oggi pressoché dimenticato e educatore-filantropo attraverso le sue Lezioni caritatevoli di musica destinate a ragazzi di famiglie poco affluenti della città orobica nonché amato docente del giovanissimo Gaetano Donizetti dal 1806 al 1814. Composta per il San Carlo di Napoli nel 1813, cioè due anni prima del settennato rossiniano alla direzione musicale del teatro napoletano, la Medea in Corinto presenta complessità vocali, che ricordano da vicino quella del Rossini serio. Non stupisce che fra i suoi primi interpreti vi siano alcune delle stelle vocali del Rossini napoletano, a cominciare dall’eroina eponima Isabella Colbran, ma anche dei due primi tenori Andrea Nozzari (Giasone) e Manuel García (Egeo). A Bergamo l’opera arriva nel 1821, in una versione rivista dallo stesso compositore, soprattutto nei ruoli di Creusa e Egeo, per il Teatro Sociale, che accoglie questa versione a 200 anni dal debutto in una nuova edizione critica curata da Paolo Rossini. Scriveva un cronista del Monitore delle due Sicilie all’indomani del debutto napoletano: “Vi sono certamente due tipi di musica, una cioè che occupa lo spirito e la mente, e l’altra che muove ed agita il cuore. La prima sembra regnare nell’opera del Signor Mayer, ma non debbe dirsi affatto priva della seconda”, un giudizio ancora oggi condivisibile nel senso che l’opera di Mayr sembra soprattutto tributaria di un gusto belcantista e di una elaborata scrittura strumentale che attenuano il respiro tragico del mito classico rispetto a versioni operistiche anche più note dedicate alla maga della Colchide, Medée di Cherubini in testa. Lo stesso trattamento librettistico di un giovane Felice Romani non aiuta nemmeno troppo con quello scambio di coppie fra Medea-Giasone e Creusa-Egeo, che, nonostante il nobile ascendente raciniano, immiserisce alquanto la figura di Medea.

L’allestimento di Francesco Micheli sembra ispirato da un’ansia di attualizzazione del mito di Medea che, nel caso dell’opera di Mayr sembra particolarmente mal riposto. Il racconto viene incardinato in tre nodi anche temporali: la terra del 1959 con la ribellione di Medea ai riti tribali e la sua fuga con Giasone; la periferia urbana di Corinto nel 1975 dove si svolge il nucleo della vicenda; e ancora la Corinto del 2021 per l’epilogo, piuttosto indecifrabile come il finale particolarmente confuso, con Giasone in ciabatte vecchio e solo nella cucina domestica. Micheli scomoda Pasolini e le sue riflessioni su società rurale e alienazioni urbane oltre che su disagi filiali e madri affettivamente cannibali, con citazioni pasoliniane (ma anche di Euripide, Heiner Müller, Christa Wolf e Édouard Louis) proiettate sul velatino di proscenio dall’effetto piuttosto straniante, e risolve il vuoto drammaturgico dell’opera con movimentati scambi (reali o sognati) di coppie fra camere da letto matrimoniali e cucine popolari in continuo saliscendi contro un’immagine di paesaggio urbano degradato (il mobilissimo dispositivo scenico è di Edoardo Sanchi e i costumi vintage di Giada Masi) fra portinai condiscendenti in guardiola e i santoni animisti del passato di Medea. Funziona molto meglio la componente musicale grazie a un quartetto di eccellenti interpreti, che erano Carmela Remigio (Medea), in testa per il riuscito equilibrio fra ricami belcanti e senso del dramma, Marta Torbidoni (Creusa), Michele Angelini (Egeo) e Juan Francisco Gatell (Giasone), quest’ultimo espressivo e di carattere ma ai limiti delle possibilità nelle asperità vocali riservate al ruolo. Funzionano bene anche gli altri, soprattutto l’ammiccante “portinaia” Ismene di Caterina Di Tonno e il santone Creonte di Roberto Lorenzi, così come i figli di Medea Chiara Dello Iacovo e Andrea Guspini che la regia vuole praticamente sempre in scena. Ottimo il lavoro di concertazione dell’energico Jonathan Brandani alla testa dell’Orchestra Donizetti Opera (con gli impeccabili assoli dell’arpa nella grande scena di Creusa con coro nell’apertura del secondo atto, e del violino in “Sommi dei” di Medea) e del Coro del Donizetti Opera, diretto da Fabio Tartari, non favorito dalla disposizione in verticale sui palchetti di proscenio.

"La fille du régiment" (Foto di Gianfranco Rota)
"La fille du régiment" (Foto di Gianfranco Rota)

Molto meno inedite la scelta dei due titoli per il palcoscenico del Teatro Donizetti, cioè La fille du régiment e L’elisir d’amore, entrambi comunque presentati nelle edizioni critiche curate rispettivamente da Claudio Toscani e Alberto Zedda, per dire dell’attenzione alla qualità musicale che il Donizetti Festival Opera dedica anche ai titoli più rodati, testimoniata anche dalle scelte di casting che, accanto a qualche nome noto, privilegiavano interpreti giovani ma di comprovato talento. Era certamente il caso del soprano Sara Blanch, scatenata mattatrice nel ruolo di Marie nella Fille du régiment, che con la sua voce luminosa e agilissima e grande disinvoltura scenica è capace di rubare la scena anche al più navigato John Osborne, il cui Tonio non mancava l’appuntamento con gli attesi nove do di petto di “Ah mes amis”, festeggiatissimi con sonori applausi e ovazioni. Accanto a loro, i due musicalissimi Paolo Bordogna (Sulpice) e Adriana Bignagni Lesca (Marchesa di Berkenfield) aggiungevano una nota di sorniona simpatia coadiuvati dalla presenza intonata dei due caratteristi Haris Andrianos (Hortensius) e Cristina Bugatty (La Duchesse de Krakenthorp). Al divertimento della serata contribuiva in maniera decisiva anche la direzione musicale arruffata ma vitalissima di Michele Spotti sul podio dell’Orchestra Donizetti Opera, i puntuali interventi del Coro dell’Accademia del Teatro alla Scala preparato da Salvo Sgrò, e le stravaganti incursioni del percussionista cubano Ernesto López Maturell per aggiungere colore al già coloratissimo allestimento coprodotto con il Teatro Lírico Nacional de Cuba, che ha tenuto già a battesimo lo spettacolo un paio di anni fa. Niente guerre fra francesi e austriaci nell’età napoleoniche a far da sfondo all’esile vicenda, ma la Cuba dell’epica rivoluzionaria castrista, ferocemente anti yankee, nello spettacolo firmato dal regista Luis Ernesto Doñas con le divertenti scene di Angelo Sala e costumi di Maykel Martinez, che creavano una jungla cubana con i tratti del fumetto per il primo atto, e un salone costruito sulla bandiera statunitense virata in bianco e nero per la dimora “très plouc” della Berkenfield nel secondo.

"L’elisir d’amore" (Foto di Gianfranco Rota)
"L’elisir d’amore" (Foto di Gianfranco Rota)

Anche per L’elisir d’amore le buone notizie erano soprattutto sul versante musicale con una distribuzione vocale che poteva contare sulle ottime qualità musicali di Javier Camarena come Nemorino, anche lui festeggiatissimo dopo l’atteso appuntamento con “Una furtiva lagrima”, ma anche di Florian Sempey, Belcore tronfio ma vocalmente impeccabile, e di Roberto Frontali, un Dulcamara fin troppo attento a non tracimare sul farsesco, e Anaïs Mejías, una brillante Giannetta. Grande prova della giovanissima Caterina Sala, un’Adina brillante sul piano vocale e già molto disinvolta sulla scena. Concede più di una finezza all’ascolto il direttore Riccardo Frizza sia sul piano della ricerca di sonorità d’epoca donizettiana grazie all’Orchestra Gli Originali, ensemble con veri strumenti originali e non copie di strumenti storici, un inedito per un’opera del compositore, almeno nel nostro paese, sia su quello della restituzione della partitura originale, eseguita nella sua integralità come di rado accade specialmente per un’opera che è generalmente considerata una pura macchina comica. L’allestimento di Frederic Wake-Walker contraddice in un certo senso questo approccio attestandosi sulla routine più consumata e poche invenzioni originali. Nello spazio antistante il teatro si svolge un prologo con i burattini di Daniele Cortesi e Mariateresa Zanoni in una sintesi delle musiche dell’Elisir per tromba chitarra e tamburo. In sala l’idea viene ripresa nella scena funzionale di Federica Parolini con un fondale che riproduce la facciata del teatro e le quinte le architetture del Sentierone antistante. Gli interpreti in scena sono vestiti con i coloratissimi costumi di Daniela Cernigliaro fra il burattinesco e il circense e anche il pubblico è invitato dal maestro di cerimonie Manuel Ferreira a partecipare allo spettacolo sventolando bandierine distribuite all’ingresso in sala e cantando con il coro in scena i versi festosi che aprono il secondo atto con un effetto fra villaggio turistico e festa strapaesana.

Ma è forse proprio quel clima di festa al cittadino illustre nei teatri ma soprattutto nelle strade e nei luoghi insoliti della città la chiave del successo di un festival ancora giovane ma in piena crescita: Donizetti è uno di noi.

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