Myung-Whun Chung con “Fidelio” apre la stagione della Fenice
L’opera di Beethoven in un nuovo allestimento di Joan Anton Rechi inaugura la nuova stagione del teatro lirico veneziano
In ritardo (giustificato) sul disgraziato anno beethoveniano, il Teatro La Fenice ha inaugurato la nuova stagione d’opera con Fidelio. Con questa produzione proseguiva l’impegno del direttore Myung-Whun Chung con il teatro lirico veneziano iniziato molte stagioni fa e si coronava il percorso beethoveniano già previsto nella scorsa stagione. A causa della chiusura delle sale di spettacolo, quel percorso si era ridotto all’esecuzione a porte chiuse della sola Nona sinfonia giusto un anno fa, fortunatamente registrata e diffusa attraverso i canali social e la cui ripresa, questa volta con il pubblico in presenza, è annunciata a conclusione in coda alle recite di questo Fidelio.
Questo Fidelio era dunque atteso con un certo interesse soprattutto per la lettura del direttore coreano, che, lontano da qualsiasi idea di sperimentazione musicologica alla moda, opta per la classica versione del 1814 ma sostituisce l’ouverture “definitiva” decisa da Beethoven per la terza versione dell’opera con la Leonore III della seconda versione del 1806. Scelta per alcuni discutibile però rivelatrice della chiave interpretativa di Chung: i tempi lenti e la rinuncia a ogni slancio trionfalistico già nell’ouverture erano il segno di un Fidelio dai colori cupi e di carattere funereo. Nel percorso dalla prigionia alla libertà che la Leonore III descrive in maniera plastica, la tenebra della prigionia si allunga e investe la leggerezza del primo atto ma anche il radioso finale. In questo senso, non stupisce che il secondo atto risulti ben più riuscito e marcante sul piano interpretativo (emozionante il preludio con quei suoni sussurrati e spettrali, che suggeriscono sonorità quasi espressioniste), laddove il primo atto non si scosta troppo da una cifra diligente ma poco partecipata.
Dal canto suo, la compagine vocale aggiunge poco nel complesso ai meriti musicali di questo Fidelio. La coppia di protagonisti non si dimostra sempre all’altezza, soprattutto Ian Koziara come Florestan, in evidente disagio nella tessitura più acuta dell’aria del secondo atto, risolta comunque con una certa trascuratezza espressiva. Sul piano vocale Tamara Wilson come Leonore/Fidelio è più adeguata, ma anche lei non brilla per particolari doti espressive. Convincono di più Tilmann Rönnebeck, un Rocco tradizionale di solide caratteristiche vocali, Oliver Zwarg, un don Pizarro malvagio senza riserve anche in qualche eccesso intrerpretativo, e Bongani Justice Kubheka, un don Fernando reso con nobiltà di espressione e smagliante resa vocale. Completano il cast Ekaterina Bakanova come Marzelline e Leonardo Cortellazzi come Jaquino, portatori sani di una nota di freschezza e leggerezza nel primo atto.
Dopo il Faust ricco di idee e di invenzioni, era lecito aspettarsi di più dal regista Joan Anton Rechi, in questa nuova produzione affiancato dallo scenografo Gabriel Insignares e dal costumista Sebastian Ellrich. Rechi dichiara una ispirazione spagnola come nella vicenda originale e cita la prigione di stato franchista all’aria aperta della Valle de los Caídos nei pressi dell’Escorial e al suo gigantismo architettonico costruito dagli sconfitti della guerra civile. Quell’idea però, a parte la testa incompiuta di una statua gigante (di un leader, spiega il regista nel programma di sala) che occupa il palcoscenico nel primo atto, sembra aver poco rilievo nello sviluppo di un progetto forte e coerente di regia, che invece si assesta su movimenti e soluzioni molto convenzionali e di scarso impatto, compreso nella generalmente toccante uscita alla luce dei prigionieri alla fine del primo atto. Il secondo atto rinuncia a qualsiasi invenzione, ma bastano Beethoven (e Chung) a fare teatro.
Questo Fidelio comunque funziona e piace, come hanno testimoniato l’alta partecipazione in tutte le recite e i festosi applausi a tutti gli interpreti specialmente al direttore coreano.
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