Il Julius Caesar inaugura l’Opera
Un grande successo ha accolto la nuova opera di Battistelli tratta dalla tragedia di Shakespeare
Era dal 1901, quando furono rappresentate Le Maschere di Mascagni, che l’Opera di Roma non inaugurava con una novità assoluta. Dunque scegliere per l’inaugurazione la nuova opera di Giorgio Battistelli è stata indubbiamente una scelta coraggiosa e soprattutto accorta, perché, se fosse stato inserito nel corso della stagione, il Julius Caesar non avrebbe avuto l’attenzione dei media e la sala piena, che invece questa collocazione strategica gli ha assicurato e che l’opera meritava totalmente.
Ne ha scritto il testo - in inglese, con alcuni inserti in latino - Il drammaturgo Ian Burton, che l’ha ricavato dalla tragedia di Shakespeare. Ha tagliato e sintetizzato, talvolta ha citato alla lettera l’originale, talvolta ha inventato ex novo. Per esempio, nell’opera il fantasma di Cesare non soltanto appare a Bruto prima della battaglia di Filippi ma ha un ruolo determinante anche nel suicidio di Cassio e di Bruto, perché entrambi gli chiedono di tenere la spada su cui si gettano. Burton lo fa comparire anche nelle ultime battute, quando si mette alle spalle di Ottaviano, come a dire che il suo spirito è penetrato nel suo successore: anche da morto Cesare continua a indirizzare la storia di Roma. Invece sono tagliate e ridotte al minimo le scene di violenza – tranne, inevitabilmente, l’assassinio di Cesare – e di battaglia.
“Più che un lavoro sulla violenza, è un lavoro psicologico […] Non è un’opera di violenza, ma amletica, di dubbio”, sintetizza Battistelli. Il centro del suo Julius Caesar è la psicologia del potere o piuttosto dei potenti, che resta ancora sostanzialmente immutata rispetto ai tempi di Cesare e a quelli di Shakespeare, sebbene molte cose siano indubbiamente cambiate e nelle democrazie moderne non capiti sovente che un politico venga pugnalato in senato, semmai soltanto in senso figurato. Sono però arbitrari e forzati i paragoni con l’attualità politica italiana di questi giorni, che si sono sentiti nelle chiacchiere del foyer e anche letti sulla stampa, forse suggeriti dalla regia stessa, al di là delle intenzioni. Sarebbe riduttivo oltre che sbagliato collegare quest’opera all’hic et nunc.
Cesare, Antonio, Bruto e Cassio non sono i prestanome dei mediocri personaggi della politica dei nostri giorni ma i protagonisti - mossi da contrastanti ma alti ideali, oltre che da personali ambizioni - di un momento della politica romana che ha segnato la storia ed è rimasto nei millenni un simbolo della lotta per il potere. Tutti gli altri numerosi personaggi sono figure di contorno, il che non significa affatto che siano scialbi: ha una grande forza drammatica la scena di Calpurnia, l’unico personaggio femminile dell’opera, che racconta a Cesare i presagi funesti da lei avuti in sogno; come anche la breve scena del servo di Cesare, che riferisce i presagi altrettanto nefasti ricavati dalle viscere delle vittime sacrificate agli dei; e come ancora l’episodio veramente minimo del vecchio che dice a Cesare di diffidare delle idi di marzo. Altre scene, come quelle che hanno al centro Casca e Decius, sono fondamentali per ritrarre la psicologia di Cesare.
Ma c’è anche un quinto protagonista, il popolo: è indignato con Bruto per l’assassinio di Cesare, tuttavia viene rapidamente sedotto dalle sue parole e si schiera dalla sua parte, ma il discorso di Antonio gli fa cambiare totalmente opinione e vorrebbe uccidere Bruto e gli altri cesaricidi. È l’eterna volubilità delle masse, sempre disponibili a lasciarsi convincere dai discorsi belli e fasulli di certi politici, che duemila anni fa arringavano il popolo dai rostri del foro, ora dalla televisione e dai social. In conclusione l’argomento fornisce molti interessantissimi spunti per riflettere su cosa sia il potere ieri, oggi, sempre.
Ma è la musica di Battistelli a dare vita alle parole. È una musica prevalentemente densa e cupa, cupissima. A determinarne il carattere è soprattutto l’orchestra. Le primissime battute orchestrali sia del primo che del secondo atto potrebbero essere scambiate per qualche frammento che Wagner abbia tagliato dai momenti più neri del Crepuscolo degli dei. Quando il cadavere di Cesare viene portato fuori scena sulle spalle dei suoi sostenitori, è riconoscibile una chiara citazione del Crepuscolo degli dei, precisamente degli apocalittici colpi di timpani della marcia funebre di Sigfrido. Ma sono soltanto brevi passaggi e assolutamente non autorizzano a definire postwagneriana quest’orchestra, che è inequivocabilmente figlia del ventunesimo secolo, frantumata, aspra, tagliente, che mantiene sempre tesa all’estremo l’atmosfera drammatica dell’opera. Nel primo atto - interamente ambientato nelle stanze della politica romana, dove va prendendo corpo la congiura ma non succede nulla d’eclatante - l’orchestra ha colori prevalentemente cupi, quasi uno studio sulle diverse sfumature di nero, inventando colori anche inediti all’interno dell’orchestra, soprattutto delle percussioni. Ma nel finale dell’atto, al momento dell’uccisione di Cesare, l’orchestra s’infiamma per rispecchiare la brutale velocità dell’azione. Nel secondo atto, diviso in episodi nettamente differenziati, l’orchestrazione è più variegata ma sempre tesa, cupa, drammatica.
L’orchestra dunque è la protagonista del Julius Caesar e di conseguenza il vero protagonista dell’esecuzione è stato Daniele Gatti, che ha voluto fortemente dirigere la prima di quest’opera. Il lavoro con l’orchestra è stato lungo e intenso, perché la partitura è molto complessa, e il risultato è stato ottimo. L’orchestra è sempre nitida pur nell’intrico delle parti, incisiva, scattante, senza momenti di disattenzione e di cedimento della tensione. Si conclude così la direzione musicale di Gatti all’Opera, troppo breve e per di più bloccata a lungo dalle chiusure per il covid. Ma pare ormai certo che nell’ottobre del 2024 ritornerà a Roma come direttore musicale di Santa Cecilia. Anche il coro, preparato da Roberto Gabbiani, si è fatto apprezzare in una parte tutt’altro che semplice.
Ai protagonisti di questa lotta per il potere Battistelli non chiede inflessioni esteriormente (melo)drammatiche ma una declamazione intonata flessibile ed intensa, che scava all’interno della loro psiche e ha il non trascurabile pregio accessorio di far capire una per una le parole del testo. Non si deve credere che questa sorta di recitativo spianasse la strada ai cantanti, che avevano comunque un compito piuttosto arduo e soprattutto faticoso, anche perché dovevano sormontare un’orchestra sempre molto presente. Tra i tredici cantanti, alcuni dei quali ricoprivano più ruoli, citiamo almeno Clive Bayley (Caesar), Elliot Madore (Brutus), Dominic Sedgwick (Antony), Julian Hubbard (Cassius) Michael J. Scott (Casca) e Ruxandra Donose (Calpurnia, applauditissima). Unico italiano Alessio Verna, segnalatosi nel racconto dei sacrifici malauguranti fatto dal servo di Cesare.
Robert Carsen era alla sua terza collaborazione con Battistelli (e stanno già progettando insieme la quarta), quindi si deve supporre che tra i due ci sia un’ottima intesa. Il pregio della sua regia è aver rispettato l’essenzialità di questa tragedia con una recitazione sobria e asciutta, ma intensa e drammatica, e di non aver voluto fare a tutti i costi qualcosa di originale e bizzarro. Perché non si può certo considerare originale aver trasportato l’azione ai nostri giorni: l’aula del senato somigliava infatti a quella di Palazzo Madama (scene di Radu Boruzescu) e i personaggi vestivano abiti moderni (costumi di Luis F. Carvalho).
Teatro pieno, seppure non esaurito, e molti, calorosi e prolungati applausi, mentre due o tre spettatori - come di rito quando si fa un’opera contemporanea - gridavano “buh”, ma si sentivano appena nel fragore degli applausi e dei “bravo”.
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