La world music come musica normalissima
Cronache dal Premio Parodi, sempre più osservatorio di una world music in rapida evoluzione
Chi segue “il giornale della musica” da tempo conosce ormai il Premio Parodi (per quanto mi riguarda è vicino il decennale, su 14 anni di attività). Dopo l’edizione 2020, saltata per evidenti ragioni e rocambolescamente recuperata la scorsa primavera, ancora in zona arancione, l’edizione 2021 ha rappresentato un (parziale) ritorno alla normalità, pur ancora nella formula ridotta a due giorni.
Per i più distratti, il Premio funziona così: una commissione seleziona – coordinata dalla direttrice artistica Elena Ledda – le migliori proposte di world music tra le molte centinaia che giungono alla Fondazione Andrea Parodi. I progetti scelti – quest’anno otto – si esibiscono in Sardegna con un brano in gara, avendo occasione di far ascoltare alla giuria anche un altro brano dal loro repertorio e una cover scelta da quello di Andrea Parodi. Ai vincitori va una borsa di studio e il supporto economico – importante come non mai, visti i tempi – per un tour promozionale.
Per il 2021, vincitore (meritato) è stato il chitarrista e autore Matteo Leone, interprete di un blues elettrico venato di colori desert, cantato in tabarkino – ovvero il dialetto di Carloforte (e Calasetta, da cui Leone proviene), una variante del genovese approdata in Sulcis via Tunisia, nel Settecento, quando i coloni genovesi di Tabarka lasciarono l’Africa per stabilirsi in Sardegna. Leone ha vinto il premio principale, oltre alle menzioni per il miglior testo, la migliore musica e il miglior arrangiamento.
Il premio della critica è andato invece alla cantante e chitarrista Sorah Rionda, cubana di origine ma con un bel mix di radici tra Oriente e Spagna. Ha proposto un brano delicato e acustico, ottimamente arrangiato per chitarra (che Rionda suona con tocco classico, da conservatorio: si è in effetti diplomata a Venezia).
Altre menzioni al chitarrista acustico Elliott Morris (migliore interpretazione, grazie al suo interessante uso dei loop e a una tecnica eccellente sullo strumento) e a Francesco Forni, chitarrista e autore alla sua prima esperienza con il napoletano, per la miglior versione di un brano di Andrea Parodi. La giuria internazionale (collegata da remoto) ha premiato invece i siciliani Siké e i campani Terrasonora, mentre il premio assegnato dai concorrenti è andato ai tarantini Yarákä, interpreti di una energica e originale mistura ritmica a base di tamburello e berimbau. Rimangono fuori curiosamente gli Ayom, collettivo diviso tra Toscana, Brasile, Angola e Portogallo: di alto livello la loro mistura afro-cubana.
Per la cronaca, dobbiamo riferire degli ospiti, su tutti la violinista Anna Tifu (Premio Albo d’Oro 2021) accompagnata dal pianista Romeo Scaccia, magistrali nel loro breve set (che includeva anche una acclamatissima – e a ragione – versione di “No potho reposare”); Fanfara Station, il trio già vincitore del 2019; e il duo Still Life, vincitore del 2020.
È qui che lo spirito del Parodi – rispetto ad altre rassegne simili – viene fuori nella sua forma più genuina: nel ritorno dei passati concorrenti, con l’immancabile saggio del percorso fatto. È stato così per entrambi i progetti, che sono apparsi – sul palco del Teatro Si' e Boi di Selargius – cresciuti. Più maturi, più a fuoco, più efficaci.
Rimane di dire del ruolo che il Premio Parodi si è scelto da qualche anno, pur nella consapevolezza della difficoltà del compito: quello di osservatorio su quanto avviene, in Italia, nel campo della cosiddetta “world music”.
Etichetta già ampiamente decostruita, così tanto decostruita che – anno dopo anno – si stenta sempre di più a utilizzarla senza l’aggiunta di opportune virgolette e “cosiddetta” (come appunto ho fatto quasi in automatico poco sopra). Persino i Grammy ne hanno fatto a meno (anche se la soluzione scelta – “Global music” – è la classica toppa peggiore del buco). Ne farà a meno anche il Parodi, nei prossimi anni?
Ci sono buone ragioni tanto per mantenerla in vita quanto per farla fuori. Tra le prime, rimane la sua (almeno per il momento) relativa praticità: come chiamare altrimenti, senza esibirsi in supercazzole, la musica che passa da premi come quello sardo?
Tra le ragioni per farne a meno, c’è tutto quello che l’etichetta ci ha fatto perdere, la tara che ha imposto a innumerevoli progetti, che si sono (in passato) sentiti in dovere di inserire in organico un bouzouki riverberoso alla Creuza de Mä per suonare una parte concepita alla chitarra, o il perniciosissimo cajòn invece della batteria perché “fa etnico”.
C’è da dire che nessuno dei progetti visti quest’anno rientrava in queste categorie, il che fa ben sperare. La grande sbornia della “musica mediterranea” sembra essere ormai prossima alla fine, superata dalle stesse storie di vita dei musicisti del ventunesimo secolo.
La grande sbornia della “musica mediterranea” sembra essere ormai prossima alla fine, superata dalle stesse storie di vita dei musicisti del ventunesimo secolo.
Ha senso parlare di world music quando tutte le musiche del mondo – presenti e passate – esistono nella nostra contemporaneità, a portata di un paio di swipe sul telefono?
Ha senso parlare di world music per Matteo Leone, cresciuto a Calasetta, passato attraverso lo studio delle musiche africano-americane e poi approdato al dialetto perché – ha spiegato nel corso della prima serata – trovatosi a suonare blues negli Stati Uniti, si è convinto di poter ritrovare qualcosa di interessante, di distintivo, di “suo” nella lingua dei propri nonni? O per Ayom, che sintetizza le passioni di musicisti di paesi diversi in un tipo di sound afrobrasiliano che è ormai lingua franca in molte parti del mondo? O per Sorah Rionda, che ha studiato la chitarra classica ma anche la gaita, in onore delle sue remote origini asturiane? Certo, c’è la componente dell’autorappresentazione, la praticità dell’etichetta, la necessità di incasellarsi in uno slot di genere per potersi piazzare sul mercato (o banalmente, per poter partecipare a un “premio di world music”).
L’enfasi, a costo di ripetere per l’ennesima volta uno slogan che l’antropologia della musica ha fatto proprio da decenni, dovrebbe come sempre spostarsi dalla musica ai musicisti. Allora sì, quelli che passano per il Premio Parodi sono dei world musicians, cresciuti nella infinita nuvola di musiche che caratterizza il mondo in cui viviamo, lontani da ogni tentazione esotica o post-colonialista. Musicisti che si sono incontrati tra paesi e culture diversi. Musicisti che hanno riscoperto le loro origini per aggiungere una dimensione diversa a quello che già facevano. Musicisti che hanno scoperto e studiato suoni lontanissimi da loro, per il puro gusto di farlo, e hanno fatto proprie musiche che “loro” non erano…
Negli eventi collaterali del Premio, si è assistito anche alla presentazione del nuovo disco di Mauro Palmas Meigama, cointestato con il producer e musicista elettronico Francesco Medda. Il quale ha detto, contro ogni tentazione di parlare di contaminazioni, world music e quant’altro: «È un disco normalissimo, fatto da musicisti che suonano strumenti diversi».
La world music è, in effetti, potrebbe essere solo una musica normalissima, e sempre più normale, fatta da persone che suonano strumenti diversi, che vengono da parti diverse del mondo e che si sono incontrate da qualche parte.
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