Kid A e Amnesiac, vent'anni dopo

Come passa veloce il tempo quando il rock è finito: il "nuovo" Kid A Mnesia dei Radiohead

Radiohead Kid A Amnesiac
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Proprio mentre sto riflettendo su come iniziare brillantemente un articolo sui vent’anni di Kid A e Amnesiac dei Radiohead (e sulle succulente edizioni pubblicate dalla band di Oxford per celebrarne il genetliaco, compresi gli inediti raccolti in un terzo disco, Kid A Mnesia), un comunicato stampa nella mia casella di posta mi informa che sono passati venticinque anni da “Tranqi Funky” degli Articolo 31.

Si parva licet componere magnis, le due ricorrenze hanno almeno un importante punto in comune, ovvero quello di colpire in pieno volto l’articolista con una libbra abbondante di sentimento del tempo. Ecco l’epifania: sono entrato in quella fase della vita di un critico in cui le legacy edition cominciano a riguardare un pezzo importante della mia vita vissuta.

La mia adolescenza di ascoltatore ruotò molto più intorno ai Radiohead che non agli Articolo 31, e dunque quanto dirò ha in sé questo primo, decisivo bias. Tuttavia, lasciando sullo sfondo ovvie considerazioni di impatto culturale internazionale, importanza, stile, originalità, look e quant’altro, tra il 1996 di Così com’è e il 2001 di Amnesiac (Kid A fu pubblicato appena otto mesi prima, ancora nell’ottobre del 2000) sembra essere passato un secolo, così come i venticinque anni di distanza del primo sembrano molto più lunghi dei venti che ci separano dai secondi.

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Il 1996 di “Tranqi Funky” capitava a metà strada fra il 1995 di The Bends, secondo album che faceva presagire che i Radiohead fossero molto di più che l’ennesima band uscita dal Brit Pop, e il 1997 di OK Computer, oggi (giustamente) celebrato come una delle ultime pietre miliari della storia della rock. Tutti quei titoli (sì, anche Ok Computer) suonano oggi come pezzi di storia del Novecento. Sempre benissimo (lo stesso forse non si può dire degli Articolo 31), ma come pezzi di storia del Novecento.

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Non sembra essere così per Kid A e Amnesiac, il cui spleen analogico-digitale riascoltato nella nuova edizione non ha perso una tacca di smalto. Certo, questo tipo di percezione è soggettiva ed effimera, e dipende dal momento storico da cui osserviamo il passato. Oggi, paradossalmente, i dischi degli anni ottanta (ad esempio, quelli di Franco Battiato) suonano incredibilmente attuali, per come il ciclo della nostalgia ha riportato in auge quei suoni. Ma qui – come con ogni classico – sembra esserci qualcosa di più profondo.

Radiohead Kid Amnesiac
Radiohead (foto John Spinks)

Il momento in cui la coppia Kid A e Amnesiac è venuta alla luce (i due dischi nascono dalle stesse sessioni, e solo il rifiuto dei Radiohead di pubblicare un doppio album ha fatto sì che uscissero come prodotti distinti) è probabilmente una delle ragioni della loro persistenza.

Gli anni a cavallo del nuovo millennio sono un momento decisivo di transizione, forse l’inizio dell’epoca in cui stiamo vivendo (cominciando a contare, ad esempio, dall’11 settembre di quell’anno). Un’epoca liminale per la storia del pop: i dischi, rigorosamente cd, ancora si attendevano e si compravano in negozio (il grosso cartonato che annuncia l’uscita di Amnesiac, ancora appeso nella mia vecchia cameretta, è lì a ricordarmelo), ma allo stesso tempo Napster e seguaci ci stavano insegnando un nuovo modo di pensare la musica, che gli stessi Radiohead avrebbero preso di petto qualche anno dopo con la diffusione “up to you” di In Rainbows.

Appena pochi anni dopo, pubblicare un disco non avrebbe più avuto la capacità di penetrazione, l’impatto sull’immaginario collettivo di una generazione che ancora si poteva ottenere all’inizio del millennio, e che ottennero Kid A e Amnesiac. Prima il peer-to-peer, poi lo streaming, erano destinati a erodere l’idea stessa di “album”, e a frazionare il mainstream pop in nicchie più o meno piccole, in una galassia di generi e suoni.

Intanto, si cominciava ad annusare la retromania che avrebbe caratterizzato i successivi vent’anni: era quello l’inizio di quello che Simon Reynolds avrebbe chiamato il “ri-decennio” (e a ben vedere c’erano già stati il Brit-Pop, il punk revival…). Per molti, la coppia Kid A Amnesiac rappresenta uno degli ultimi momenti in cui il mainstream pop-rock ha saputo e voluto immaginare una via di fuga possibile, in avanti. Per Thom Yorke & co. si trattò di abbandonare le chitarre e dedicarsi a un mix di elettronica e bricolage simil-beatlesiano di strumenti vecchi (le ondes martenot che infestano entrambi i dischi) e nuovi (l’Auto-Tune che fa capolino in “Pulk/Pull Revolving Doors”, usato in un modo che sarebbe diventato hip solo diversi anni dopo).

I critici dissero (e dicono) che le idee migliori dei due dischi venivano dalla scena di quella che nel decennio prima era stata la Intelligent Dance Music, con spruzzate del trip hop e delle innumerevoli buone idee venute fuori dal sottobosco British negli anni novanta. Probabilmente è vero, come è vero che le trovate di Greenwood attingevano a piene mani alla musica contemporanea, spesso semplificandone i percorsi (ancora, il precedente dei Beatles è evidente).

È difficile però sostenere queste argomentazioni come negative: i Radiohead hanno saputo prendere queste idee e sintetizzarle per un pop d’avanguardia di ampia accessibilità, danzando con eleganza sulla china tra riferimenti oscuri e melodie di facile presa, tra approccio nerd e coolness rock.

Dopo Kid A e Amnesiac, la critica in ogni stagione ha annunciato l’arrivo dei “nuovi Radiohead”. Tra quelli che hanno raggiunto il successo, tutti hanno deluso le aspettative: i Coldplay diventando una (fastidiosa) versione hipster degli U2, i Muse trasformandosi in una (perniciosa) versione più muscolare dei Queen (o meno muscolare dei Dream Theater, a vostro piacere).

Poi, nel pieno del ri-decennio, il rock si è chiamato fuori dai generi che avevano ancora qualcosa di nuovo da dire, cedendo ad altre musiche e altri suoni quel poco che restava dell’avanguardia. Anche per questo oggi Kid A e Amnesiac continuano a suonare alla grande: non hanno poi prodotto molti figli, a ben sentire. Chi ha voluto (e vuole ancora oggi) imitare i Radiohead ne riprende il suono dei primi album, fermandosi intimidito alla soglia del nuovo millennio. Chi ha voluto fare musica nuova dopo, ha guardato da un’altra parte.

L’attesa edizione deluxe del ventennale, intitolata Kid A Mnesia, rimette insieme i due album invitando a pensarli come frutto della stessa temperie culturale e creativa, e aggiunge un terzo disco.

Il quale, tocca ammetterlo, aggiunge poco alla storia che abbiamo raccontato.

Se l’ultima uscita “ufficiale” dei Radiohead era stata l’integrale dei minidisc “rubati” (l’avevamo raccontata qui), che aveva stuzzicato il gusto dei completisti, qui era lecito sperare in qualcosa di più. A parte l’inedito “If You Say the Word” (buon pezzo, nulla più) e una registrazione in studio inedita di “Follow Me Around” (già comparsa nel documentario del 1998 Meeting People Is Easy), troverete gli archi di “How to Disappear Completely” e “Pyramid Song”, “Pulk Pull” con su il testo di “True Love Waits” (outtake che attraversa molti anni di storia dei Radiohead, e che infine ha avuto pubblicazione ufficiale su A Moon Shaped Pool), una versione di “Fog (Again)”, che pure era apparsa in diverse pubblicazioni… I Radiohead non sembrano aver scartato molto di quello che hanno prodotto, dunque non produrranno mai una Bootleg Series.

Poco male, in ogni caso. Si rimedia con un contorno di edizioni – si va da quella in cassetta (intitolata Kid Amnesiette) al triplo vinile, a raccolte di illustrazioni e memorabilia – sufficiente a depauperare il fan più parsimonioso.

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