Lo schiavo e la regina

Andrea De Carlo dirige Moro per amore al Festival Barocco Alessandro Stradella

Stradella Young Project
Stradella Young Project
Recensione
classica
 Palazzo Farnese di Caprarola
 Moro per amore
09 Settembre 2021

Composta nel 1681, Moro per amore  è l’ultima opera di Alessandro Stradella, che la compose pochi mesi prima di morire. Alcuni asseriscono che sia stata rappresentata a Genova, dove il compositore visse l’ultima periodo della sua breve vita, altri a Roma, perché l’autore del libretto è Flavio Orsini, esponente di una delle più grandi famiglie principesche romane, che ben difficilmente l’avrebbe composta per un teatro impresariale, mentre è probabile che l’avesse destinata ad una rappresentazione in uno dei suoi palazzi. Ma non si ha nessuna notizia certa della sua rappresentazione, quindi si suppone che la partitura sia rimasta muta fino all’epoca moderna.

 L’Orsini scrisse un libretto di buona qualità letteraria, che spicca per alcuni suoi caratteri di originalità, a partire dal titolo, che gioca sull’ambiguità: Moro per amore  si riferisce al fatto che il protagonista, figlio del re di Cipro, giunge alla corte di Sicilia sotto le spoglie di uno schiavo moro per constatare la bellezza e la virtù della regina Eurinda… e i due si innamorano reciprocamente. Ma significa anche “muoio per amore” ed Eurinda dà proprio tale significato a queste parole quando le canta momento culminante dell’opera. Decisamente più notevole è che Moro per amore  proponga qualcosa di assolutamente inaudito: una regina si innamora di un suo servo, per di più “moro”, e decide di sposarlo, infrangendo tutte le convenienze possibili e immaginabili. Forse siamo noi del ventunesimo secolo a leggere questo fatto come un guanto di sfida lanciato a tutti i pregiudizi sociali e razziali, mentre per i contemporanei era soltanto una delle tante assurdità di un inestricabile intreccio a base di travestimenti, amori incrociati, equivoci, gelosie e rivalità.

Comunque alla fine Feraspe getta la maschera, si rivela per quel che è - principe e bianco - e quindi tutto rientra nell’alveo delle regole. Resta comunque il fatto che fino a pochi minuti dalla fine si ascolta la regina cantare il suo amore per uno schiavo nero ed esaltarne le virtù. E non è la sola, perché anche la prima dama di corte, Lucinda, è innamorata di Feraspe e lo contende ad Eurinda. Ma non basta, ne è innamorata, seppure senza speranza, anche la vecchia nutrice Lindora, che introduce nella vicenda un elemento di comicità.

Su questo libretto Stradella, giunto al vertice della sua arte, scrive - accanto a sporadici momenti di normale amministrazione, che servono a mandare avanti i momenti meno interessanti dell’intricata vicenda - molte pagine splendide. I recitativi non sono ancora i recitativi “secchi” del Settecento e conservano la plasticità e l’espressività del “recitar cantando”, così che senza alcun tagliente divario si passa  alle arie, mezz’arie e arie cavate, tantissime e spesso brevi, ma folgoranti. Stradella ha la capacità di cogliere una gamma di varietà e sfumature di affetti che vanno ben al di là del repertorio cristallizzato di arie di amore, furore, tempesta e via seguitando, che verrà codificato negli anni seguenti. E li condensa in pochi tratti musicali icastici.

Sebbene sia stata eseguita in forma di concerto e con abbondanti tagli (la durata è passata da circa tre ore e mezza a due ore e mezza) si è potuto cogliere perfettamente nel Moro per amore tutta la sua forza di straordinario capolavoro, principalmente grazie alla concertazione di Andrea De Carlo, apostolo della riscoperta di Stradella in questi ultimi anni e anima del Festival Barocco Alessandro Stradella, che si svolge a Viterbo e in altri centri della Tuscia. Questa volta non dirigeva il suo complesso strumentale Mare Nostrum ma il gruppo da lui fondato nell’ambito dello Stradella Young Project. Gli strumentisti sono giovani ma seguono De Carlo già da qualche anno e hanno acquisito una buona esperienza nel campo della musica barocca e di Stradella in particolare. I cantanti invece cambiano ogni anno e alcuni sono un po’ acerbi. È vero che, tranne che in pochi passi, quest’opera non presenta grandi difficoltà quanto ad agilità e ad estensione vocale, ma richiede una assoluta conoscenza e padronanza dello stile dell’epoca. I giovani cantanti svolgono con impegno il loro compito e, grazie anche alla guida di De Carlo, ottengono risultati assolutamente decorosi, ma cantanti più esperti potrebbero dar altro rilievo e altra forza a questa musica straordinaria. C’è riuscita, almeno a tratti, l’interprete di Eurinda, Joanna Radziszewska. C’è riuscita benissimo Eleonora Filipponi, anche perché il ruolo semicomico della nutrice può essere affrontato sena particolari filtri stilistici. Bene anche Alicja Ciesielzuk, che interpretava il ruolo semplice e immediato del giovane innamorato Fiorino (sicuramente pensato per un castrato). Il protagonista Faraspe era Danilo Pastore, un controtenore corretto ma un po’ pallido (altro ruolo pensato per un castrato). Margarita Slepakova aveva la voce più “importante” del gruppo, che però in un’opera come questa le è stata più d’impaccio che d’aiuto: era infatti un po’ rigida, mancava di morbidezza e talvolta “sforava” in modo fastidioso, tuttavia la sua interpretazione dell’amante delusa era partecipe ed intensa. Nei ruoli minori Masashi Tomosugi ha fatto ascoltare una discreta voce di basso e Carlos Arturo Gomes Placido una voce gradevole ma molto esile di tenore. Non li aiutava l’acustica della Sala dei Fasti Farnesiani del Palazzo Farnese di Caprarola, bellissima (completamente affrescata da Taddeo Zuccari) ma con un rimbombo a tratti piuttosto fastidioso.

Pubblico ridotto a causa del distanziamento sociale ma generoso di applausi.

 

 

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