A Spoleto Debussy e Stravinsky
Pascal Rophé dirige nella piazza del Duomo di Spoleto l’Orchestra e il Coro di Santa Cecilia, in residenza quest’anno al Festival dei Due Mondi
In origine era riservata alla grande festa del concerto di chiusura, quest’anno invece la piazza del Duomo è diventata un luogo abituale del Festival dei Due Mondi, perché sono molti i concerti che vi si svolgono, ma resta sempre emozionante come la prima volta la bellezza di questa piazza in pendio che si allarga progressivamente ed ha come fondale la facciata del Duomo, la cui pietra bagnata dalla luce del crepuscolo si tinge di meravigliose sfumature continuamente cangianti. E alla destra del Duomo si erge il colle boscoso sulla cui sommità sorge la rocca trecentesca. Sicuramente una delle più belle sale da concerto open air d’Italia e del mondo, forse la più bella. Con in più un’acustica che, pur non potendo essere perfetta (e asettica) come quella di una sala da concerto, produce degli effetti unici, estremamente suggestivi, magari con l’aiutino di un’amplificazione ben calcolata e nient’affatto invadente.
Il concerto dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia iniziava con i Nocturnes di Debussy, la cui preziosa orchestrazione era resa dalla direzione precisa e accurata di Pascal Rophé – che non per nulla ha iniziato la propria attività accanto a Pierre Boulez - con nitidezza di contorni e trasparenza assolute, ovvero il contrario esatto del flou, cioè del suono sfocato che secondo le vecchie interpretazioni era inseparabile da Debussy. In questa esecuzione ogni minimo dettaglio riceveva un limpido rilievo, perché qui non c’è una nota che sia meno importante delle altre e debba restare seminascosta in secondo piano. La distanza da cui il suono giungeva e il grande spazio in cui si diffondeva intervenivano a creare un effetto acustico speciale, che sarebbe stato impossibile nel chiuso di una sala, perché le sonorità erano sì nette e definite ma anche prive di peso e impalpabili, come le nuvole che danno il titolo alla prima parte di questa trilogia di Debussy.
In modo diverso ma simile, nella seconda parte (Fétes) il suono sembrava non avere una provenienza precisa, suggerendo continui mutamenti di direzione come se la musica fosse portata dal vento, e il risultato era irreale e onirico come le misteriose feste notturne che il titolo di questo brano evoca. Ma l’effetto acustico più meraviglioso era nella terza parte, Sirènes, con le voci del coro femminile - collocato per rispettare il distanziamento su una tribunetta laterale, lontana dall’orchestra - che con un piccolo trucco dell’amplificazione venivano diffusi dagli altoparlanti distribuiti tutt’intorno alla piazza, in modo che il canto ora seduttivo ora languido ora ridente di quelle leggendarie creature non sembrava prodotto da un organo vocale ma aleggiava nell’aria, appariva, scompariva, riappariva, sempre inafferrabile come un miraggio.
Passare a Oedipus Rex di Stravinskij era un salto enorme, non cronologico (meno di trent’anni) ma di concezione, stile, trattamento delle voci e dell’orchestra. È un’opera del periodo neoclassico di Stravinskij ma conserva più di qualcosa della violenza sonora, dei ritmi inesorabili, del rifiuto del joli del suo periodo russo: questo esige la tragedia di Sofocle. L’esecuzione era meno centrata che in Debussy, ma è difficile dire quanto la responsabilità fosse del direttore o dell’acustica della piazza, che in questo caso non era favorevole, perché toglieva spessore al suono, mentre le voci e l’orchestra devono giungere all’ascoltatore dure e pesanti come le pietre delle mura ciclopiche della Grecia arcaica. Si è ascoltata un’esecuzione indubbiamente di buon livello, ma che non inchiodava l’ascoltatore alla terribile tragedia sofoclea, narrata da Stravinskij con asprezza e spietatezza assolute, senza la minima concessione a psicologismi e sentimentalismi estranei alla tragedia greca.
Ottime le prove dell’orchestra e del coro (questa volta le sole voci maschili), complessivamente buone quelle dei solisti. Allan Clayton, superata la parte iniziale in cui Stravinsky spinge il tenore in un impossibile registro sovracuto per evidenziare la vanità di Edipo, è stato un valido protagonista. Impeccabili le altre voci maschili: Andrea Mastroni (Creonte e il Messaggero), Mikhail Petrenko (Tiresia) e John Irvin (Pastore). Giocasta era Anna Caterina Antonacci, come sempre magnifica. L’attrice Pauline Cheviller non ha fatto rimpiangere la voce maschile cui Stravinskij pensava come narratore.
Era una gioia vedere la grande piazza nuovamente piena di pubblico, anche se non ancora come nei tempi precedenti la pandemia, quando non c’erano le norme sul distanziamento.