Monteverdi nello specchio del teatro
Bel Ritorno di Ulisse in patria alla Pergola di Firenze con l’affascinante messinscena di Robert Carsen e Ottavio Dantone sul podio dell’Accademia Bizantina
Si apre il sipario e vediamo allo rovescia, allo specchio, il luogo in cui ci troviamo: il teatro della Pergola. La specularità è avvincente e perfetta, ma quel piccolo teatro a platea vuota e palchetti potrebbe essere anche il SS.Giovanni e Paolo a Venezia, dove si presume sia andata in scena nel 1640 questa che è la seconda delle tre opere di Monteverdi che si sono conservate; o anche il Globe, se pensiamo a ciò che accomuna Monteverdi a Shakespeare, la vibrante ed enigmatica ricchezza e molteplicità di ciò che si rappresenta, dei e dee, uomini e donne, umanità eroica e sofferta, umanità egoista, spensierata e godereccia anche se qualche volta, a suo modo, simpatica. Qui gli dei, vestiti di nobilissimo rosso porpora, osservano e commentano lo spettacolo delle vicende umane dai palchetti, o vi si mescolano – Minerva addirittura da dea ex machina calante dal cielo - per portare il fato di Ulisse e Penelope al lieto fine. Fatta salva l’imponenza dell’invenzione di quel teatro specchio di quello reale (Radu Boruzescu firmava le scene), l’allestimento in quella platea vuota è semplicissimo: abiti moderni con gli azzeccati i costumi di Luis Carvalho (pensiamo ai tre Proci bellimbusti e al mendicante Iro, con la loro chiassosa eleganza), il talamo simbolo delle nozze regali e dei dubbi di Penelope, un grande tavolo, le sedie, e tutto è mosso, spostato, sorretto da una doppia schiera di figuranti che letteralmente portano il peso di tanti prodigi ed eroismi, valletti in rosso e più moderni serventi in livrea nera e guanti bianchi. Come sempre la scrittura scenica di Carsen è governata con sicura e calibrata eleganza e punteggiata di originali invenzioni di cui non intendiamo fare la cronaca, salvo invitare caldamente chi può a non perdersi questo spettacolo. Ma, come ben ricordiamo dai suoi precedenti spettacoli fiorentini, Fidelio e Elektra, è una concezione della regìa tutt’altro che capricciosa ed estetizzante, e non perde mai l’occasione di suggerire altre realtà arieggianti intorno alle grandi questioni del teatro di sempre, lo stringersi e il risolversi dei nodi del caso e del fato.
L’unico testimone della partitura, il codice conservato a Vienna, è scritto nella scabra modalità con cui ci è stato trasmesso con poche eccezioni il retaggio dell’opera italiana del Seicento: linee vocali e basso continuo, le poche linee strumentali delle sinfonie, ritornelli, interludi su modi di danza, spesso su quei vivaci profili dei bassi di danza spagnoli che Monteverdi amava tanto, quelle ciaccone e passacaglie non ancora irrigidite a danze solenni. Ogni esecuzione comporta dunque da parte del concertatore un’edizione pratica che rimpolpi il magro materiale tenendo conto degli usi compositivi dell’epoca, e di certe associazioni tipiche fra personaggi e/o situazioni, e timbri strumentali. Il tutto era svolto con libertà e una certa esuberanza fondando il tutto sulle competenze di prassi esecutiva di Dantone e del suo gruppo, in cui vogliamo segnalare almeno l’arpa di Flora Papadopoulos. Più che soddisfacente anche il foltissimo cast a diciotto personaggi, tra allegorie, divinità e varia umanità. Ulisse era Charles Workman, tenore messosi in luce sulle ribalte più importanti nei ruoli del teatro novecentesco e contemporaneo, e che peraltro, tuffandosi in un mondo musicale così diverso, ha debuttato con grande sicurezza nel ruolo del protagonista; Penelope era invece una specialista, l’elegante Delphine Galou; ma a gusto di chi scrive spiccavano la Minerva di Arianna Vendittelli, scenicamente e vocalmente meravigliosa, e il Giove davvero tonante di Gianluca Marghelli; molto piacevole anche la giovane coppia Melanto – Eurimaco, Miriam Albano e Hugo Hymas, e tutti da ridere i Proci Andrea Patucelli, Pierre-Antoine Chaumien e James Hall. Successo netto, vivissimo e prolungato, repliche 30 giugno, 3 luglio, 8 luglio.
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