Le voci di Dante a Ravenna
L'happening verso Paradiso e il progetto di Arto Lindsay dedicato a Carmelo Bene hanno celebrato Dante a Ravenna Festival
«Non è uno spettacolo, è un happening da condividere tutti insieme». Così Ermanna Montanari in apertura di verso Paradiso, la lettura integrale della terza cantica della Divina Commedia, ideata e diretta con Marco Martinelli sulle musiche di Luigi Ceccarelli.
In scena settanta attori si danno il cambio fino all’alba in questo viaggio verso luce e verità, suonato da Vincenzo Core (chitarra elettrica), Giacomo Piermatti (contrabbasso), Gianni Trovalusci (flauti), Andrea Veneri (live electronics), con Mirella Mastronardi alla voce.
Non v’accorgete voi che noi siamo vermi nati a formare l’angelica farfalla, che vola alla giustizia senza schermi? (Dante Alighieri, Purgatorio, X, 124-126).
Questa ascesa verso l’indicibile perfetto viene tradotta in spartito con maestria da Ceccarelli, che ci fa entrare nei cieli con stanze di voce sola che rimandano ad un folk ancestrale, intatto e remoto. Ma “Trasumanar significar per verba/non si poria”(I, 70) e qui sono racchiusi la luce di questi canti ed il senso forse della musica stessa, che dice cose intraducibili in parole.
Il flauto di Trovalusci è la porta che si apre su questo mondo diafano e rarefatto: in alcuni frangenti riaffiorano memorie delle colonne sonore dei Popol Vuh o di Ernst Reijseger per Werner Herzog: beatitudini infinitamente orizzontali da mantra, spezie di raga indiano, cori vagamente arabi lasciati scivolare lungo un pendio, le voci come sirene (straordinario il canone nel canto VII) per un discorrere felicemente ambiguo ed allusivo, che mira, riuscendovi pienamente, a farsi impalpabile come la sostanza delle anime cui viene dato verbo.
Il Sommo poeta del set di Arto Lindsay, due sere prima, è invece quello della Lectura Dantis di Carmelo Bene dalla Torre degli Asinelli di Bologna del 31 luglio 1981: la voce dell’indimenticabile attore è a tratti l’impalcatura monumentale su cui costruire le musiche, meno rivolte al Brasile del solito e capaci di disegnare via via luoghi dove la musica carnatica (la voce di Roopa Mahadevan) e il folk del nostro sud-est (quella di Rachele Andrioli, anche al tamburo a cornice) si toccano. Il ruolo melodico una volta nella band di Arto ricoperto da Vinicius Cantuaria spetta al violoncello di Redi Hasa, che nel dialogo con l’immancabile bassista Melvin Gibbs fa fiorire un profumato ibrido Bach/Hendrix.
Lindsay si ritaglia il ruolo consueto: guastatore e poetico sfasciacarrozze con la sua proverbiale Danelectro azzurra, cantante a mezza voce a porgere delicatissime melodie, secondo la lezioni dei grandi brasiliani. Ed è proprio la voce di Carmelo Bene a ergersi, ieratica e profondamente musicale, come strumento, in una specie di hip-hop ansiogeno e lunare: la parola qui si fa suono, fondale, avventura negli abissi del significato.
Talvolta ritroviamo i motivi per cui seguiamo Arto Lindsay da una vita: un groove travolgente, il coraggio di mescolare ciò che parrebbe inconciliabile: lame noise e languori carioca, New York e il maracatu. Il fondatore dei DNA si è abbeverato con grande intelligenza alle sorgenti di questo Rio delle Amazzoni, inventando nuovi suoni, con la grazia sorniona di chi da una vita suona la chitarra in barba alle buone maniere. Per la grande stima che gli portiamo ci saremmo aspettati, visti titolo e premesse, qualcosa di più vorticoso e perturbante. Se la voce rabdomante di Bene ci sprofonda nel gorgo, altre volte il concerto resta un po’ indeciso tra avanguardia e galateo, mostrando sì sprazzi di luce ma anche qualche episodio un poco fuori contesto (i pezzi classici riarrangiati per l’occasione come "Illuminated", da Invoke del 2002).
Forse approfondire l’idea di Oriente italiano e tuffarsi nell’oceano di un’altra musica popolare, come tentato con buoni risultati nella versione di "Luna otrantina" del Canzoniere Grecanico Salentino (mutatis mutandis, ci viene in mente l’approccio alla materia dei bravissimi Ghetonia, dal Salento) avrebbe dato risultati più saporiti. La cesta di Lindsay comunque è grande, come la sua capacità di scovare i suoni del presente, coi loro rami e le loro radici. La prossima volta pescheremo un frutto più maturo.
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