Non era per niente scontato che dopo l’edizione mancata del 2020 il TOdays Festival di Torino potesse tornare a risplendere come il più eclettico ed eccitante festival musicale dell’estate italiana. Anche perché, invece di centellinare gli annunci fin dai primi giorni dell’anno in corso, com’era sempre accaduto fino all’ultima edizione (poi annullata), su quello che sarebbe (forse) successo a fine agosto 2021 non si sapeva assolutamente nulla.
Fino a quando, pochi giorni fa, è apparso tutto in un colpo solo il cartellone definitivo di 4 giorni ricchissimi, dal 26 al 29 agosto, che per quantità e soprattutto qualità sono semplicemente imperdibili per chiunque si definisca un appassionato di musica. E veramente non potevamo chiedere di meglio per tornare a ubriacarci di musica dal vivo dopo i lunghissimi mesi passati in casa per i ben noti motivi.
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A questo punto, invece di presentare una noiosa disquisizione su quali serate e/o artisti preferire tra quelli disponibili (sarebbe peraltro stato davvero difficile fare una graduatoria di qualità), abbiamo fatto due chiacchiere con mister Gianluca Gozzi, da sempre deus ex machina del TOdays, una sua creatura fin dalla nascita nel 2015, per quella che sicuramente è stata l’edizione organizzativamente più sofferta del festival. Ne è venuta fuori una chiacchierata molto lucida e illuminante su cosa significa organizzare un evento di questa portata in questi anni…
«In realtà il confine tra la realizzazione di un sogno e il doverlo abbandonare è ancora molto labile – dice Gozzi – e al momento non abbiamo ancora l’assoluta certezza che tutto si concluda per il meglio. Speriamo che la nostra tenacia sia premiata e che non ci siano brutte sorprese, anche perché ce l’abbiamo messa tutta per cercare di proporre qualcosa di diverso dalla solita offerta. Ad esempio siamo probabilmente gli unici in Italia e tra i pochissimi in Europa a proporre artisti che provengono da altri paesi, e ti garantisco che trovare gli incastri giusti per tutti, considerando i problemi di mobilità che ci sono in questo periodo, è stato estremamente complesso. E poi, secondo la nostra filosofia, abbiamo cercato di proporre nomi di qualità che non siano per forza i più popolari o quelli che vanno per la maggiore».
Beh, in realtà i nomi in cartellone sono tutti di primissimo ordine, soprattutto per chi segue un certo ambito, che è poi quello in cui il TOdays si è mosso da sempre…
«Sì, anche in questo caso abbiamo cercato di costruire una proposta che rispecchi davvero il today, l’attualità, ma anche con una proiezione verso il futuro, cercando di puntare non tanto su ciò che è, ma su ciò che verrà».
Noto ad esempio che rispetto a certe passate edizioni c’è più uno sbilanciamento su nomi britannici ed europei che non americani. È una scelta di natura artistica o una necessità contingente, data dalle restrizioni legate alla pandemia?
«Entrambe le cose. Organizzare un festival significa anche saper guardare con realismo a come stanno le cose, e un dato di fatto è che non ci sono band americane che saranno in tour in Europa quest’estate».
«L’idea romantica di organizzare un festival per far suonare i gruppi che vuoi tu è una sciocchezza».
«Questo vincolo è stata la spinta a cercare una narrazione di tipo diverso, che ci ha orientati a scovare gruppi soprattutto di origine britannica, ma non solo, come Les Amazones d’Afrique, francesi. Una cosa di cui bisogna rendersi conto è che l’idea romantica di organizzare un festival per far suonare i gruppi che vuoi tu è una sciocchezza: spesso devi adattarti a chiamare i gruppi che puoi permetterti di pagare con il budget a tua disposizione, da lì non scappi. Poi se sei bravo riesci a trovare un filo conduttore che dia un senso alla rassegna, che mostri una sua coerenza».
Dal punto di vista del supporto finanziario di sponsor e istituzioni, quest’anno è andata meglio o peggio che in passato?
«Beh, da una parte è stata rinnovata la fiducia da parte della città di Torino, che già si era manifestata con l’iniziativa del TourDays, e ci è stata data carta bianca da parte della città e delle istituzioni, incluse le Fondazioni e i partner locali; questo è stato un supporto molto importante. D’altra parte il sostegno finanziario da parte degli sponsor di questi tempi è molto al di sotto delle aspettative, per cui, come accade per ogni evento culturale in Italia, abbiamo dovuto ridimensionare di molto la portata del festival».
«Se si pensa che in condizioni normali il TOdays raccoglie venti o trentamila persone, e adesso abbiamo un vincolo sulla capienza di mille paganti seduti e distanziati a serata, resta poco da dire, specialmente sul piano commerciale».
«Se si pensa che in condizioni normali il TOdays raccoglie nella sua durata venti o trentamila persone, e adesso abbiamo un vincolo sulla capienza di mille paganti seduti e distanziati a serata, resta poco da dire, specialmente sul piano commerciale».
Come si traduce questo vincolo a livello di bilancio?
«Da anni i bilanci dei festival si organizzano con una spartizione della copertura delle spese che prevede un terzo a carico degli sponsor, un terzo per le istituzioni e un terzo per la biglietteria. Ora, per l’ultimo aspetto può sembrare facile quest’anno raggiungere il massimo consentito di mille persone a serata, ma in realtà in assenza di nomi di forte richiamo non sempre è sufficiente la curiosità per l’artista emergente, e non ancora famoso, per richiamare le folle. Certi gruppi, che magari in Inghilterra fanno diecimila persone, da noi arrivano a malapena a mille – e il cachet non cambia! Quindi anche se ovviamente puntiamo al sold out, nulla è dato per scontato…».
Ok, allora non resta che uno spot fatto come si deve per convincere il pubblico a venire al TOdays!
«Innanzitutto vorrei sottolineare un’aspetto importante: il TOdays non è il festival in cui vado a sentire quel particolare artista che mi piace, è a contrario un ritrovo in cui ho la possibilità di sentire musica nuova, che non per forza conosco e che magari non mi piace neanche tanto; quel che conta è la tensione, e magari questa è data anche da suoni che mi sembrano ostili. In tal senso non vorrei dire che un artista è meglio di un altro, ma che forse mai come questa volta siamo riusciti a creare una narrazione trasversale tra i vari nomi presenti, soprattutto nel rappresentare il post rock o il post punk di questo particolare momento temporale, cosa che possiamo sentire con continuità nei Dry Cleaning come nei Working Men’s Club o negli Shame o nei Black Midi. Al contrario un progetto di cui sono estremamente contento è quello di Teho Teardo, che è stato creato appositamente per il festival a partire dallo storico film francese La jetée, e che è praticamente un film del film, presentato in anteprima e sonorizzato appositamente».
«Poi vorrei evidenziare che siamo riusciti ad avere una presenza di artisti femminili relativamente importante, da Arlo Parks alle Amazones d’Afrique, e che vado altrettanto fiero dei vari italiani coinvolti, da Iosonouncane che ha fatto un disco estremamente importante ad Andrea Lazlo che pure lui ha un aspetto cinematografico importante dal vivo, e a tutti gli altri. Sono tutti live che vanno visti, che hanno un senso proprio per essere eseguiti davanti a un pubblico».