La rabbia incendiaria dei Sons of Kemet
Black to the Future dei Sons of Kemet, progetto "da ballare" di Shabaka Hutchings, è già un classico istantaneo
Km.t – Kemet – è il termine egizio per indicare l’Egitto, la “terra nera”, chiamata in questo modo a causa del limo depositato ogni anno dalle esondazioni del Nilo, e Sons of Kemet è il nome di uno dei tre gruppi in cui milita Shabaka Hutchings – gli altri due sono The Comet Is Coming e Shabaka and The Ancestors –, il sassofonista e clarinettista che da qualche anno ha riportato Londra al centro della scena jazz (o, se preferite, nu-jazz) internazionale.
– Leggi anche: La cometa di Shabaka Hutchings
Black to the Future è il quarto capitolo della loro discografia, a tre anni di distanza del già notevole Your Queen is a Reptile, ma questa volta il gruppo alza ulteriormente l’asticella.
Sons of Kemet, The Comet Is Coming: lo so già, fra un po’ la mia confusione darà vita a Sons of Comet o The Kemet Is Coming, ingarbugliando ulteriormente la matassa. Ma torniamo a noi: un mesetto fa esce “Hustle”, collaborazione del gruppo con Kojey Radical, poeta spoken word figlio di immigrati del Ghana: «Ho percorso distanze di miglia e miglia col telefono silenziato, senza sentire, senza vedere, ho solo avvertito la violenza, Dio ha messo le mie preghiere col pilota automatico, perché nessuno mi ha detto che la pace mentale è costosa?».
La scansione di Kojey Radical è dancehall e sotto il basso tuba di Theon Cross e le due batterie di Seb Rochford e Tom Skinner sono implacabili, dettano un ritmo che non fa prigionieri. Ecco il video che accompagna il brano: attenzione, può causare dipendenza.
I Sons of Kemet sono spesso descritti come il progetto dance di Shabaka, il tentativo di portare il jazz a un pubblico mainstream, e un fondo di vero c’è, ma non dimentichiamo che la loro musica ha una forte derivazione dalla cultura e dall’esperienza della musica africana e caraibica: soca e calypso (Shabaka è originario di Barbados), funk, nyabinghi giamaicano, l’afrofuturismo di Sun Ra, tutti elementi che concorrono a dare vita a una miscela eccitante.
Il senso di urgenza è palpabile, finalizzato all’approfondimento del contesto e della storia dell’esperienza dei neri (l’uccisione di George Floyd e il movimento BLM), ma la fisicità e il movimento sono preponderanti, anche se la danza è sì una celebrazione ma soprattutto strumento di lotta.
«Sono nato dal fango con un’attività frenetica dentro di me» – "Hustle"
E ancora:
«Queste preghiere dei neri sono danza, questa lotta dei neri è danza, questo dolore dei neri è danza, questa lotta dei neri è danza, questo scoppio d’ira dei neri è danza, lasciate solo che i neri esistano, voi avete già il mondo, lasciate che i neri esistano, LASCIATECI IN PACE!» - "Black"
“Hustle” non è l’unico pezzo straordinario di questa raccolta: al suo stesso livello metto “Pick up Your Burning Cross”, con la partecipazione di Moor Mother e Angel Bat Dawid, tour de force senza pietà, in cui Shabaka ci fa capire che coi suoi polmoni il Covid non ha nessuna speranza, e quando il ritmo scende leggermente, ecco che il basso tuba di Cross barrisce come un elefante nubiano imponendo un’ulteriore accelerazione, proprio come faceva Peppiniello Di Capua quando richiedeva ai fratelli Abbagnale un aumento del numero dei colpi in acqua negli ultimi centocinquanta metri, e anche noi, come Galeazzi, arriviamo alla fine senza voce e con un’aritmia cardiaca che i medici definirebbero “importante”.
«Non credo che ti ricorderai di me, ero quella in ultima posizione, sperduta nella gara» - "Pick Up Your Burning Cross"
Il disco è aperto e chiuso da due poemi, il già citato “Black” e “Field Negus”, entrambi declamati dall’autore Joshua Idehen, suono e furia senza compromessi, necessariamente provocatori: «Stiamo facendo rotolare i vostri monumenti lungo le strade come si fa col tabacco, stiamo gettando le vostre effigi nel fiume, non meritavano neanche una pira, lasciate che io vi mostri che cosa mi avete insegnato sul crimine, scordatevi la fettina, vogliamo tutta quanta la torta».
Shabaka destina la parte centrale del disco ai pezzi più riflessivi, quelli in cui può dispiegare il suo lato più melodico, ed ecco “Think of Home”, “Remembrance of Those Fallen” e “Envision Yourself Levitating”, con la sola eccezione di “For the Culture”, descrizione divertita e divertente di una notte in una dancehall fatta da D Double E.
Black to the Future è una dichiarazione d’intenti e, a partire già dal titolo, ha tutti gli ingredienti per diventare in poco tempo un classico, uno di quei dischi con cui ci si dovrà confrontare negli anni a venire. Ma non ditelo ai signori di Pitchfork, per loro non vale più di 7.4: ciao, core.