Musica in prossimità, luci e ombre del contemporaneo
La sesta edizione di Musica in prossimità conferma la spregiudicata visione artistica del festival di Pinerolo
Volontà. Usa questa parola Laura Bertolino, componente del Quartetto Maurice che è l’anima di Musica in Prossimità di Pinerolo, nell’introduzione al primo evento della sesta edizione del festival. Con sincerità, senza polemica, usa questa parola, la forza di questa parola e la contrappone alla retorica di altre, come resistenza, resilienza, ripartenza, che come un mantra pervadono realtà artistiche che tanto hanno sofferto il lockdown. Volontà come chiave di accesso, per dire che si può fare, con la forza delle idee, l’organizzazione, una visione aperta, rimettendosi in gioco confrontandosi con sfide e problematiche nuove. Musica in prossimità 2020 pur ridimensionato, orfano dei suoi ricchi aspetti internazionali, logisticamente condizionato dalle limitazioni legate al Covid 19 è la prova lampante di come nonostante tutto si possa salvaguardare un piccolo festival dedicato alla contemporaneità nella provincia italiana.
reConvert (ovvero Lorenzo Colombo e Roberto Maqueda) affrontano Amoeba per due performer di Fernando Manassero al primo appuntamento al Teatro del Lavoro. In linea con l’impronta artistica del festival l’opera mischia elettronica, video, oggetti amplificati, il gesto dei due sul palco. Nei due schermi suddivisi alle loro spalle esplodono immagini, forme astratte, ombre, fantasmi, colori. I suoni sintetici ci circondano, il fumo invade lo spazio, ci troviamo come intrappolati dentro qualcosa di sconosciuto. I suoni si materializzano in schegge mobili che rimbalzano tra chi è lì, in qualche modo siamo tutti implicati ma viviamo, come ricettori dinamici (così ci definisce l’autore), emozioni diverse in base alla nostra capacità di percepire, fare nostro, nella complessa polifonia di suoni, immagini e gesti, quel dettaglio, quel segnale. Un lavoro rischioso che funziona se i ricettori dinamici funzionano come tali, altrimenti Amoeba si ridimensiona ad una sterile esposizione di buone intenzioni.
Decisamente più provocatori quelli del collettivo torinese Almare. Suggestionati da una possibilità fantascientifica, quella di recuperare nel tempo attraverso le nuove tecnologie, voci, messaggi, testimonianze, frutto della pratica dell’auto-registrazione, sviluppano un lungo racconto diviso in due parti dove la parola è assoluta, unica protagonista. Nella prima con una lettura dal vivo che esplica filosofie, motivazioni e ricerche sul tema, nella seconda scorrono sullo schermo testi letti da una suadente voce fuori campo. Scritti tratti da varie fonti (Steve Goodman/Sonic Warfare Sound Affect and The Ecology of Fear – Pierre Klossowski/La monnaie vivante – Guido Morselli/Dissipatio HG – William S. Burroughs/The Electronic Revolution – Jlin/Asylum…e tanti altri). Ne scaturisce un meta audio-racconto sulla memoria che affascina nelle sue premesse quanto annoia irrimediabilmente come svolgimento di una fredda operazione intellettuale.
Ma a Pinerolo si può godere anche il calore degli strumenti acustici. E che strumenti! Il contrabbasso di Francesco Platoni e le percussioni di Enrico Malatesta. In entrambi i concerti le location giocano un ruolo importante. Platoni è nella Sala Umberto Agnelli del Circolo Sociale di Pinerolo. Destinato ad iniziative culturali e d’intrattenimento durante la terza dominazione francese, regnava Napoleone Primo, mostra tutti gli influssi della cultura francese. Le decorazioni scultoree e pittoriche della Sala che ricordano il mondo classico greco-romano stridono mirabilmente con i suoni. Platoni presenta un programma stuzzicante: di Stefano Scodanibbio Alisei, Due Pezzi Brillanti e N’Roll per contrabbasso solo e di Stefano Pierini Ultravox I per contrabbasso ed elettronica.
L’omaggio a Scodanibbio è dovuto non solo perché uno dei maestri di Platoni ma perché del proprio strumento il musicista maceratese è stato uno dei maggiori e visionari emancipatori, anche come compositore. Alisei lo dimostra subito. Il vento fresco delle corde si moltiplica nello spazio, accarezza le cariatidi in stucco bianco che dall’alto ci guardano severe. La musica è un susseguirsi di svolazzi, accelerazioni, lampi, che costruiscono un immaginifico panorama trasparente. Platoni fa corpo con il proprio strumento e rende mirabilmente ogni piccolo dettaglio come pietre preziose. Due pezzi brillanti sviluppa una trama di maggiore complessità e presuppone un alto grado di virtuosismo da parte dell’esecutore. A Platoni non manca di certo e la composizione scorre tra sussulti, armonici vaganti, accelerazioni ritmiche, contrappunti e stratificazioni per chiudersi in un climax travolgente. N’Roll è un piccolo capolavoro. Un omaggio fulminante alla musica del diavolo, al blues come spina dorsale del rock’n’roll a venire. Una musica pulsante intrisa della storia di un popolo, delle sue memorie, ma anche di sentimenti, sensibilità, danza, rabbia. Cliché che negli anni Sessanta troveranno sviluppo popolare divenendo colonna sonora per masse di giovani che volevano cambiare il mondo. Questo è N’Roll, una lezione di musica, di storia, di civiltà.
Si cambia completamente scenario con l’opera di Pierini, che fa parte di un ciclo di composizioni per strumento solo e elettronica. Ultravox I è dedicata ad Antonin Artaud e il compositore usa frammenti della sua voce tratti dalla registrazione del suo ultimo lavoro, scritto pochi giorni prima della morte. La costruzione drammaturgica nel rapporto dialettico tra voce, strumento ed elettronica crea una tensione notevole che evoca la rivoluzionaria idea di teatro di Artaud, quella dell’azione immediata nel rapporto diretto, estremo con lo spettatore. Pierini la fa passare attraverso le corde di Platoni che con l’archetto disegna un complesso flusso che come un fiume in piena si scontra, si incrocia con la voce e il pulviscolo costante dell’elettronica. Questi incastri, a volte un po' meccanici, riescono comunque a garantire una continuità, un senso di racconto, una fluidità che conduce ad un finale di notevole fascinazione.
Enrico Malatesta è invece nella Chiesa sconsacrata di S. Giuseppe del 1644, e si sa che anche dequalificati questi luoghi comunque conservano, imprigionano tra mura e volte la propria sacralità, anche se oggi quella chiesa si chiama Sala Italo Tajo. Lo sa bene Malatesta che si posiziona in un lato defilato della navata centrale e propone un vero e proprio rito, potremo definirla così la sua emozionante performance. Il set strumentale è minimo: due piatti, un tamburo a cornice, due archetti per violino. Non ha nessuna partitura davanti a sé. Esegue, della compositrice francese Èliane Radigue, Occam Ocean – Occam XXVI, che fa parte di un corpus ispirato al teologo e filosofo medioevale inglese Guglielmo di Occam. Una serie di opere per solisti e ensemble che segna il ritorno della Radigue alla composizione (senza partiture) per strumenti acustici, dopo i tanti anni dedicati alla ricerca elettronica, ma soprattutto dedicata a musicisti sensibili al suo rigoroso pensiero musicale. La frizione costante dell’archetto sul bordo dei piatti crea una tensione sonora che dal quasi silenzio cresce e cresce, particelle microtonali, armonici, vibrazioni, accumulazioni, accelerazioni, energie assorbono l’intero spazio sonoro. Il ciclico avvicinamento del tamburo ai fremiti dei piatti modifica, stoppa, devia i suoni, disegna un ulteriore piano di ascolto, stratificazioni su stratificazioni. Quando gli archetti usati diventano due tutto questo ribollire si moltiplica, i suoni si rincorrono, appaiono fantasmi melodici. Il gesto del percussionista fa parte integrante dell’opera, la semplicità del movimento, la sua ripetizione, contrasta con la complessità e la profondità di ciò che ascoltiamo. Quando ripiombiamo nel silenzio, la poesia rimane sospesa nella penombra della chiesa.
Il jazz chiude Musica in Prossimità 2020. I Satoyama sono un quartetto che si ispira alle ambientazioni, i panorami del jazz nordeuropeo così ci racconta il dépliant del festival, ma sul palco offrono un set alquanto scialbo. Concerto monocorde, tutto il materiale esposto pare uguale, la struttura dei brani ripetitiva e tradizionale, ai soli astratti e vuoti della tromba risponde la chitarra elettrica, non un guizzo, un’idea coinvolgente. L’uso dell’elettronica come neutro sottofondo. Le estetiche e la poesia del jazz nordeuropeo sono tutt’altra cosa. Diciamo che il festival probabilmente meritava un finale diverso, più in linea con quel carattere spregiudicato nella ricerca dei linguaggi che tanto ci piace, ma è anche vero che un incidente di percorso, quando si cammina sui crinali del rischio, ci può stare.
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