Il ritorno di Roberto Devereux a Venezia

Dopo 48 anni di assenza l’opera di Donizetti torna al Teatro La Fenice che compie un nuovo passo verso la normalità

Roberto Devereux (Foto Michele Crosera)
Roberto Devereux (Foto Michele Crosera)
Recensione
classica
Venezia, Teatro La Fenice
Roberto Devereux
15 Settembre 2020 - 19 Settembre 2020

 

Era tempo di colera quel 1837 a Napoli quando il Roberto Devereux vide la luce al Teatro San Carlo. Si contano a centinaia i morti nella capitale borbonica, dove il compositore vive da una decina di anni. Fra loro c’è anche Virginia Vasselli, l’amata moglie, che l’abbandona poco dopo aver dato alla luce il terzo e sfortunato figlio sopravvissuto solo poche ore alla nascita, ma Donizetti continua quella felice parabola creativa, che solo due anni prima ha conosciuto il grande successo di Lucia di Lammermoor. Come in Lucia, al suo fianco ritrova il librettista Salvatore Cammarano per un altro dramma a tinte foschissime, questa volta non fra le brume scozzesi di Walter Scott ma negli intrighi della corte elisabettiana, come già l’Anna Bolena del 1830 e la Maria Stuarda del 1835, rivisitati dal francese Jacques Ancelot nella tragedia Élisabeth d’Angleterre di nemmeno un decennio prima e già servita cinque anni prima per lo scaligero Il conte d’Essex della coppia Mercadante e Romani.

Se il titolo è tutto per lui, il fedifrago favorito della sovrana, è Elisabetta il perno drammatico della vicenda che, nella donizettianamente consueta infilata di arie e cabalette, esce forse come unico personaggio a tutto tondo contro uno sfondo di figure di marca convenzionale, eroe eponimo non escluso, che servono comunque efficacemente un meccanismo teatrale di incalzante enfasi melodrammatica. A lei, come a tutte le eroine donizettiane degne del titolo (e Lucia è un’originale e geniale eccezione, tanto per confermare la regola), spetta anche la grande scena finale della tragedia lirica nella quale, al culmine di un autentico delirio di autodistruzione pronuncia la solenne “dell’Anglica terra sia Giacomo il re” ispirata più che da slancio visionario da una clamorosa licenza dalla Storia.

Che il Devereux sia nato in tempi di colera è pura coincidenza nella scelta del Teatro La Fenice di inserire nel suo cartellone d’autunno questo titolo donizettiano, già previsto nel programma pre-pandemico per colmare un’assenza dalla scena veneziana lunga 48 anni. Di fatto, quest’opera di Donizetti segna anche il ritorno del grande melodramma ottocentesco nel teatro dopo la chiusura di febbraio e i titoli barocchi del rodaggio estivo. E il nuovo allestimento in forma semiscenica torna in una Fenice che compie un ulteriore passo verso una normalità prudentissima, ripristinando la tradizionale organizzazione degli spazi con le poltrone in platea, l’orchestra (un po’ ridotta) in buca e coro e cantanti sulla scena che mantiene le grandi costole lignee dell’arca che ha traghettato il teatro nella complessa ripartenza di luglio.

Va reso merito ad Alfonso Antoniozzi, baritono di valore prestato da anni alla regia lirica, di aver coniugato con efficacia i fortissimi vincoli imposti dalle norme sanitarie in atto con le esigenze di un normale spettacolo d’opera, perché tale è questo Roberto Devereux, che di “semiscenico” ha soltanto l’avviso in locandina e le scene di riciclo, per così dire, arricchite da pochi elementi di attrezzeria (e non manca un trono d’epoca per la sovrana) e da un gioco di sipari oltre che dall’accattivante ed elaborato disegno luci di Fabio Barettin. Se il coro è per lo più statico e disposto geometricamente sullo sfondo (e le entrate sono rigorosamente con mascherina), si nota una certa cura almeno nei movimenti scenici dei protagonisti nonostante i vincoli. L’opera è affare complicato in tempi di pandemia, ma questo nuova prova alla Fenice fa ben sperare.

Sul piano musicale, la produzione veneziana vanta una compagnia nel complesso equilibrata illuminata dalla bella prova di Enea Scala nei panni dell’eroe eponimo: vocalità luminosa e grande slancio espressivo, il giovane tenore incarna perfettamente il fuoco del personaggio strappando meritatamente applausi convinti nell’impeccabile cabaletta di congedo “Bagnato il sen di lagrime”. Convince meno la prova di Roberta Mantegna come Elisabetta, non già per un colore vocale non sempre accattivante e qualche forzatura di troppo nell’acuto, ma per una certa schematicità sul piano espressivo soprattutto nel grandioso finale riservato al personaggio. L’eleganza del fraseggio del baritono Alessandro Luongo dona accenti di nobiltà a Nottingham, mentre la consorte Sara è una Lilly Jørstad signorile ma poco appassionata e con qualche opacità nella resa vocale. A loro si aggiungono le buone prestazioni di Enrico Iviglia come Lord Cecil, di Luca Dall’Amico come Raleigh e di Emanuele Pedrini come paggio. In buca si ritrova un donizettiano doc come Riccardo Frizzache dirige un’Orchestra del Teatro La Fenice in grande forma, rivelando un interesse maggiore all’impeto tragico che all’equilibrio del volumi sonori. Non brilla come in altre occasioni il Coro del Teatro La Fenice ma si tratta di una prima e certo non facile prova di nuovo sulla scena.

Tutti esauriti i posti disponibili (ma le presenze nella ritrovata platea restano comunque scarse causa distanziamento obbligato) e applausi calorosi a tutti gli interpreti.

 

 

 

 

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