Didone e Enea sull’arca della Fenice
Dopo Vivaldi, il teatro riapre con un nuovo allestimento dell’opera di Purcell nello spazio ridisegnato della sala grande
Dopo la ripresa con lo Stravinsky al Teatro Malibran, l’opera torna nell’arca della sala modificata del Teatro La Fenice. Torna con un altro gioiello del barocco musicale Dido and Aeneas dopo l’Ottone in Villa dell’attesissima ripartenza nello scorso luglio. Il team è lo stesso con Giovanni di Cicco per la regia, Massimo Checchetto per le scene, Carlos Tieppo per i costumi e Fabio Barettin per il disegno luci, ma rispetto a Vivaldi, questo Purcell appare più compiuto soprattutto per l’utilizzo più deciso ed espressivo di quello stesso spazio scenico. Il declivio che collega il palcoscenico con la platea è coperto di materiale riflettente a simulare il mare che lambisce la Cartagine della regina Didone tagliato in mezzo da una passerella che si protende verso la platea, ossia la nuova cassa armonica che ospita orchestra e in questo caso anche il coro ben distanziato ma i cui movimenti benché limitati funzionano da amplificatore drammatico. È su questa sorta di ponte che Didone, in contrasto con i sentimenti festosi della sorella Belinda, sente crescere il sentimento per l’eroe troiano non senza angoscia. Ed è su quello stesso ponte che la regina si congeda dalla sorella con lo struggente lamento di “When I am laid in earth” e si adagia morente, abbandonata da Enea, costretto dall’inganno ordito dalla maga nemica di Didone a riprendere anzitempo il viaggio verso “the Italian ground” cui è predestinato. La dolente processione del coro attorno al corpo di Didone chiude uno spettacolo che sembra concepito come una coreografia e che integra con grande equilibrio e misura gli interventi dei solisti, dei quattro danzatori del Danse Ensemble Opera Studio e dell’ottimo Coro del Teatro La Fenice, più incisivo che mai in questo Purcell, appunto impiegando pochi ma suggestivi elementi di scena oltre a un disegno luci che inonda di colori la bella sala del Teatro La Fenice, che basterebbe già da sola a fare lo spettacolo.
Da elogiare in blocco l’insieme degli interpreti, tutti giovani e affiatati. Su tutti si impone la Dido di Giuseppina Bridelli per l’afflato drammatico e la nobiltà di espressione (peccato solo per quelle, peraltro misurate, variazioni nel lamento, veniale civetteria stilistica che tradisce l’elegiaca intimità del passaggio). Al suo fianco la radiosa Belinda di Michela Antenucci e la freschezza vocale dell’ancella di Martina Licari. La maga di Valeria Girardello è corretta ma manca di carattere, così come le due streghe di Lara Lagni e Chiara Brunello non lasciano scie di zolfo dietro di loro. Sul versante maschile, Antonio Poli è un Enea dalla forte personalità e dalla voce fin troppo corposa, mentre il giovanissimo Matteo Romaserve con onore i due ruoli minori di Mercurio e del marinaio.
Direttore non specialista del genere ma dalla grande musicalità, Tito Ceccherini non esaspera né i contrasti agogici né le divaricazioni dinamiche come d’uso presso i barocchisti, ma tende piuttosto a seguire una linea ispirata a una cantabilità di marca si direbbe belcantista. Nel nuovo spazio acustico della Fenice post-Covid, non privo di sfide per gli esecutori, il direttore riesce a trovare un non facile e seducente equilibrio sonoro fra orchestra, solisti e soprattutto coro sistemato in platea fra orchestra e scena. Di spessore la prova dell’Orchestra del Teatro la Fenice e del continuo con il violoncello di Alessandro Zanardi, le tiorbe e chitarre barocche di Dario Pisasale e Francesco Tomasi e il cembalo di Luca Oberti.
Tutti esauritissimi i posti disponibili per le tre sole recite in cartellone. Applausi festosi.
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