Battistelli, il futuro contro la dittatura dei numeri

Una conversazione con Giorgio Battistelli sui problemi antichi delle istituzioni musicali e le sfide della musica dopo mesi di pandemia 

Giorgio Battistelli
Giorgio Battistelli
Articolo
classica

Quella di lasciare la direzione artistica dell’Orchestra Regionale Toscana dopo quasi dieci anni ma con ancora tante cosa da fare è stata per Giorgio Battistelli una «scelta dolorosa frutto di un'incompatibilità con la visione e la gestione della direzione generale di un'istituzione di cui mi onoro di aver fatto parte per tanti anni. Quando i contrasti di ordine culturale sono irrisolvibili, allora è il momento di andare via».

«Quando i contrasti di ordine culturale sono irrisolvibili, allora è il momento di andare via».

Da qui parte il nostro colloquio con Battistelli, compositore di prestigio indiscusso, manager della musica di lunga esperienza e intellettuale militante impegnato da sempre a difesa della musica e della cultura in generale. Un colloquio che tocca i problemi antichi delle nostre istituzioni musicali e le sfide del mondo della musica, colpito più di altri dalla pandemia che ci ha fatto sprofondare in un silenzio lungo diversi mesi e dal quale non sappiamo ancora come usciremo. 

Giorgio Battistelli

Partiamo dalle tue recenti dimissioni dalla direzione artistica dell’ORT. Non ti chiedo di esporre le tue ragioni, ma mi piace citare una recente intervista di Stefano Merlini, già sovrintendente del Maggio Musicale Fiorentino, che le interpreta come il risultato di una tensione fra vocazione educativa e stimolo della produzione artistica del tempo presente e le ragioni del botteghino. Sono obiettivi necessariamente inconciliabili? 

«L'intervista di Stefano Merlini mi ha molto piacevolmente sorpreso. Mi fa piacere che ci siano persone che hanno ancora un pensiero sano su come bisognerebbe gestire un’istituzione culturale. Le dimissioni sono arrivate dopo una riflessione molto lunga e anche dolorosa, perché dopo tanti anni di direzione artistica e di sviluppo, di crescita, di ampliamento della progettualità creativa dell’orchestra è stato difficile lasciare. Ma si era arrivati a un punto nel quale mi sono convinto che il problema intorno alla finanza o alla dimensione economica non dovrebbe prevaricare l'arte. Ci vuole piuttosto una condivisione e non una sovrapposizione. Se condividiamo l’assunto che la cultura è un elemento imprescindibile e fondante della società, allora va condiviso anche il principio che non esiste l’espressione “spendiamo poco” o “spendiamo troppo”. Il mito del pareggio di bilancio per alcuni servizi essenziali alla persona deve essere comunque sfatato e ridimensionato».

«Il mito del pareggio di bilancio per alcuni servizi essenziali alla persona deve essere comunque sfatato e ridimensionato. Mi sento di mettere sullo stesso piano il sistema sanitario e il sistema culturale».

«In questo senso, in maniera forse un po' provocatoria ma anche pensando a quello che è accaduto in Italia in queste settimane, mi sento di mettere sullo stesso piano il sistema sanitario e il sistema culturale, mettendo nel sistema culturale anche la formazione e quindi la scuola. Una cura del corpo non deve eludere una cura dell’anima. Non si può chiedere a questi due sistemi di avere come obiettivo il pareggio di bilancio. L’obiettivo per entrambi deve essere la qualità del servizio. Non c'è denaro se non c'è cultura: di questo sono convinto, anche se spesso questo concetto si inverte. E su questo si sono incagliati gran parte se non la totalità dei teatri lirici e delle istituzioni musicali». 

Mi fai ripensare alle parole del sovrintendente Francesco Giambrone che nella sua intervista al gdm ha affermato: "È paradossale che sia stato un virus, una pandemia a farci aprire gli occhi su cosa eravamo diventati: una rincorsa sfrenata verso più incassi, più numeri, numeri, numeri, numeri...". 

«Ormai la dittatura del numero appiattisce anche lo sviluppo artistico. Il numero vanifica davvero il contenuto e il percorso artistico di un'istituzione. Quello che conta è ormai davvero soltanto il numero e questo è segno di un impoverimento molto, molto forte. Le parole di Giambrone esprimono esattamente la situazione che hanno vissuto soprattutto in questi ultimi quindici o venti i teatri italiani e nella quale si trovano oggi. Anch’io ho lasciato Firenze anche per questa iperproduzione sfrenata, nevrotica: produrre concerti, concerti, concerti, concerti... come se fossero automatizzati».

«I concerti vengono prodotti da musicisti, da cantanti, da attori che hanno bisogno di metabolizzare, di introiettare, di costruire, di far crescere la qualità. Come quando si dà a un direttore d'orchestra un numero di ore inferiore a quelle necessarie a mettere in piedi una sinfonia importante di Schubert o di Mahler o di Bruckner. Non è possibile sottrarre ore per risparmiare. La riflessione di Giambrone va in questa direzione. Improvvisamente abbiamo scoperto che eravamo sommersi di numeri. Ma l’arte dov'è? La bellezza dov'è? La portatrice della bellezza dov'è? È la bellezza del numero, la bellezza di un bilancio in attivo!».

Per tornare alla tensione fra le ragioni del numero e quelle dell’arte, non credi che in parte le ragioni vadano anche cercate nella radicalità di certe posizioni artistiche, che il pubblico hanno finito per allontanarlo se non quasi a rifiutarlo? Tu stesso in una recente intervista all’Osservatore Romano sembri suggerirlo quando dici: “È la grande responsabilità dell’Avanguardia del secondo dopoguerra che ha modificato o addirittura negato il concetto di bellezza”. 

«Messo così è un po' drastico. In effetti mi riferivo a un pensiero di Schönberg, che in una lettera scriveva: “Dovremmo recuperare la ridondanza del suono”. Questa idea, anche se non in senso eufonico, mi sembra riveli anche in Schönberg una riflessione sul piacere dell’accostamento dei suoni, su una bellezza che non sia soltanto mediata dalla costruzione, dall’architettura, dalla geometria e quindi dalla struttura. Insomma, sembra sottolineare l’interesse a un ascolto non soltanto strutturale, direbbe Adorno, ma anche emotivo o a un equilibrio fra le due dimensioni. In una gran parte della produzione dalla Seconda scuola viennese all'aspetto del cristallo, della costruzione veniva data un'importanza maggiore rispetto alla godibilità del suono. Ogni tanto Adorno amava provocare dicendo che se una composizione aveva troppo successo, allora c’era qualcosa di sbagliato (e ricordo che la stessa cosa me la dicevano anche i miei maestri al Conservatorio). Cioè se una composizione incontra il favore del pubblico non critica nei confronti della società ma, al contrario, è accondiscendente, cioè va incontro a un bisogno anche di godibilità estetica, di fruizione aproblematica». 

Godibilità estetica e complessità di linguaggio espressivo sono necessariamente in conflitto? 

«Io spero e ritengo che la mia musica abbia una sua complessità di costruzione all'interno. Personalmente non sono stato mai attratto, ma in maniera istintiva, dalla complicazione, dalla costruzione. Nelle esperienze delle avanguardie degli anni Cinquanta e Sessanta, quelle del primo Stockhausen, di Boulez e di Nono, la dimensione progettuale di un’opera a volte diventava quasi più interessante del risultato sonoro. In questo senso dico che si dovrebbe accogliere l'invito di Schönberg. Ascoltare il suono di per sé, che, mi piace pensarlo così, è anche il percorso che ha fatto Nono con il passaggio poi nel Prometeo e in tutte le composizioni di corollario al Prometeo, ma anche quello di Stockhausen con il passaggio al ciclo Licht. Rispetto alle loro produzioni degli anni Cinquanta, l'evoluzione del linguaggio è impressionante anche se naturalmente si sente che ci sono dei ponti, delle traiettorie». 

È possibile tentare un percorso con quella “ridondanza del suono”, pur senza rinnegare il proprio credo estetico? La produzione contemporanea, seppure molto frastagliata, oggi mi sembra più attenta anche alle ragioni di una maggiore intelligibilità del linguaggio musicale. È così? 

«Io credo ci sia un problema antropologico, culturale legato alla difficoltà a leggere il nostro presente. Il nostro presente è un presente estremamente diversificato, di interazione fra tante diversità, elementi che sono molto distanti l'uno dall'altro. Un concetto che mi sta particolarmente a cuore è quello di "forma radicante": è una forma che si sposta, ma che mantiene delle radici come gli alberi, una forma che si nutre di elementi diversi e che si può muovere in direzioni diverse e che produce dei fiori magnifici. Essere radicanti è mettere in movimento le proprie radici in contesti eterogenei. Lo sento come un concetto molto legato al nostro presente ma si fa fatica ad accettarlo perché una forma di mobilità stilistica o di pensiero viene spesso vissuta come forma di eclettismo. Spesso si confondono due concetti come l'eclettismo e l’eterogeneità, che sono diversi. Personalmente credo che l’eterogeneità sia una dimensione con cui dobbiamo convivere e che dobbiamo metabolizzare. Invece spesso viene interpretata come una forma di eclettismo, quindi di diversità, di impurità. Ma anche questo concetto di impurità andrebbe rivisto oggi nella sua accezione negativa. Nel suo bellissimo saggio, Carl Dallhaus sostiene che sia per la drammaturgia sia per il teatro un compositore deve allontanarsi dalla purezza, ci vuole cioè una impurità naturale nello scrivere per il teatro, perché il teatro è per definizione “impuro”. Anzi, Dallhaus dice che il teatro può tollerare il kitsch ma non la purezza. Questa impurità è fondamentale nel teatro. Personalmente penso che l’opera abbia sempre avuto bisogno di una scrittura mobile, disinvolta, eterogenea, anche se non eclettica. Del resto, le grandi opere più riuscite del passato hanno all'interno delle venature di impurità». 

Credi che questa idea di impurità sia diffusa fra i compositori di oggi? 

«Proprio in questi giorni mi è capitato di chiedere a un giovane compositore una riflessione musicale, cioè una composizione, su un’opera di Puccini, la Tosca. Ne abbiamo parlato ma alla fine lui mi ha detto: “Non è il tipo di linguaggio che sento”. Ho chiarito che non mi aspettavo un Alfano ma volevo una riflessione. Mi chiedo: perché un pittore non può riflettere su una tela di Rembrandt? Basta pensare alle riflessioni di Francis Bacon! Anche un compositore può dare la sua modernità in questa riflessione. Ma in quel caso c’è stato un rifiuto: “Io non sono per queste cose”. Posizione legittima ma che denuncia una chiusura radicale verso il passato. Credo che quel tipo di atteggiamento tenda a chiudere, a restringere il perimetro. E non solo il perimetro di pensiero ma anche quello espressivo ed è un peccato soprattutto per l’autore. Voglio dire che non c’è soltanto un problema di pubblico ma anche di autori che ritengono esista soltanto una verità. Questo è sbagliato. Noi dobbiamo convivere con un’articolazione: esiste il bello e il brutto nella musica, ma non esiste il concetto di sbagliato, di errore. 

«Noi dobbiamo convivere con un’articolazione: esiste il bello e il brutto nella musica, ma non esiste il concetto di sbagliato, di errore».

Torniamo a temi più pratici. Cito ancora Merlini che ascrive alla legge del 1998 la radice dell’indebolimento della figura del direttore artistico e degli organismi di vigilanza a favore della figura del sovrintendente. Cosa andrebbe rivisto nel meccanismo di governance delle nostre Fondazioni liriche? 

«Personalmente ritengo sia stata una sciagura politica e culturale del sistema italiano e non lo dico da oggi. Prima il sovrintendente era un “ministro col portafoglio” ma si muoveva su indicazioni o su un progetto artistico elaborato dal direttore artistico. Dopo la riforma del 1998 il sovrintendente è la figura apicale della Fondazione, che ha la facoltà di avvalersi oppure no di una collaborazione artistica. Questo significa che il teatro è in mano essenzialmente a un manager che lo porta avanti senza necessariamente un consulente artistico».

«Dopo la riforma del 1998 il sovrintendente è la figura apicale della Fondazione. Questo significa che il teatro è in mano essenzialmente a un manager che lo porta avanti senza necessariamente un consulente artistico».

«Spesso vengono seguiti percorsi più o meno espliciti di consumo, di merce, di cose nelle scelte di titoli, registi, allestimenti e non soltanto a livello italiano ma anche a livello europeo. Se si guarda alla mappa dei programmi è impressionante la ciclicità e la ripetitività di certe scelte. Wolfgang Sawallisch nel suo diario annotava che le programmazioni dei concerti assomigliano molto agli orari dei treni, cioè dopo un ciclo ricominciano daccapo. Le sale da concerto non sfuggono a questa programmazione ciclica, sono molto autoreferenziali. E questo è il risultato dell’importanza che viene data alla dimensione della vendibilità dei prodotti». 

Ma non è necessariamente un male, se ciò rende più facile l’accesso e la fruizione di eventi musicali a un numero maggiore di spettatori. Non credi? 

«Io credo sia piuttosto il riflesso, senza scomodare Freud, di un imperante narcisismo che non porta a dare una connotazione culturale ai teatri ma piuttosto un segno manageriale riflesso di una cultura imprenditoriale, a una dinamica legata alla velocità, all’incasso, all’originalità intesa come elemento che colpisce un immaginario collettivo ma sempre su un asse di consumo legato a massimizzare gli incassi. Qualche decennio fa si attaccava Berlusconi e il pensiero politico-imprenditoriale come elemento di contaminato se non di rovina per la cultura. Se penso al presente, c'è stata un’evoluzione di quel pensiero. E mi pare che sia nulla quel pensiero rispetto alla contaminazione, ai danni che produce la cultura di un iper-narcisismo estremamente autoreferenziale che non si limita alla sfera culturale. Oggi le persone hanno bisogno di avere una riconoscibilità in tutto quello che stanno facendo e quindi c'è un bisogno di strumentalizzare quello che accade nelle istituzioni. Si è persa completamente la dimensione etica, cioè la funzione che la musica e la cultura devono avere. L’etica è qualcosa che ormai sembra quasi “vintage”, una sensibilità “old fashioned”, perché oggi tutto viene consumato». 

Nondimeno il teatro è anche un’impresa. Non prenderla come una provocazione, ma come ritieni si misuri il successo dell’impresa teatro? 

«La riflessione di Schönberg sulla ridondanza è un po' un occhio come quello di Verdi, che dava molta attenzione a cosa piaceva al pubblico. Per non parlare di Puccini. L'artigiano anche cerca di creare una forma, di creare degli oggetti che certamente fa per sé ma che devono avere anche una risposta esterna. Ti racconto un aneddoto. Incontrai Federico Fellini solo una volta un paio di anni prima della sua morte. Fu un incontro molto amabile, molto bello, legato alla mia opera Prova d'orchestra tratta dal soggetto del suo film. Con lui parlammo della creatività in generale. Mi fece molta tenerezza perché era ossessionato e angosciato dall’idea del successo, non perché lo cercasse ma perché, mi disse, “Si aspettano sempre un successo da me”. Mi colpì molto: non avevo davanti un giovane regista ma Federico Fellini, uno arrivato all'apice della popolarità, della fama con riconoscimenti importanti da tutto il mondo del cinema. Eppure era angosciato dal successo ed era un'angoscia che gli veniva riversata dai produttori. Erano più loro preoccupati di come rendere più vendibile, più consumabile il suo prodotto. Ecco, questo non è dare libertà all’artista: l’artista deve essere libero anche di non avere successo o di non avere successo come nell’opera precedente. Questa ansia rischia di modificare il processo creativo». 

In quale direzione può modificare il processo creativo? 

«La cosa che a me personalmente spaventa è la vanificazione di quello che noi facciamo. Noi viviamo in un sistema di comunicazione che tende a cancellare tutto, sia il bello che il brutto. Cancella la tragedia avvenuta tre giorni fa, come cancella la scoperta di un capolavoro o la nascita di un grande capolavoro artistico che sia film, scultura, pittura, opera. Si produce e si cancella, si produce e si cancella. È una forma di consumismo esasperato, ipertrofico nel quale nulla si deposita».

«La cosa che a me personalmente spaventa è la vanificazione di quello che noi facciamo».

Come dovrebbe essere l’impresario ideale? 

«Torniamo al rapporto tra dimensione finanziaria e dimensione creativa: ci vuole un rapporto di empatia, una vera condivisione artistica. È magnifico quando il tecnico finanziario, colui cioè che ha la responsabilità del numero, entra in una empatia creativa sul progetto artistico, ossia si riconosce in quel progetto. Quando accade, l’artista si trova nelle migliori condizioni per realizzare davvero il suo progetto. Intendiamoci: è giusto preoccuparsi se le cose non hanno successo e non pensare come Adorno. Quello è un pensiero che non trova più riscontro nel presente». 

– Leggi anche: Carlo Fuortes: il modello Roma

Pura utopia o hai in mente esperienze concrete, in cui questa forma di collaborazione è accaduta? 

«Mi vengono in mente personaggi leggendari come Paolo Grassi, Massimo Bogianckino o Cesare Mazzonis, che è stato un bravissimo direttore artistico. Con Bogiankino ho lavorato tanti anni fa per una produzione della mia opera Teorema per il Maggio Musicale Fiorentino e Monaco di Baviera. Era straordinario vedere la fiducia che lui mi ha dato e dava a altri autori, come Hans Werner Henze, con cui ebbe un rapporto splendido. Tutti loro partecipavano con un occhio molto attento alla dimensione finanziaria ma c’era anche una forte volontà di sostenere il progetto artistico. Quelli sono, credo, rapporti che hanno dato bellissimi risultati. Ma citerei anche Carlo Fontana e il lavoro che ha fatto alla Scala soprattutto nel rapporto fruttuoso che ha avuto per molti anni con Riccardo Muti. Oggi purtroppo c'è sempre la forbice che prevale». 

Ovunque la forbice? Non esiste davvero nessun impresario illuminato oggi? 

«In Italia, i sovrintendenti Fortunato Ortombina a Venezia e Carlo Fuortes a Roma sono persone estremamente dinamiche, molto diverse fra loro. Ortombina è musicista di formazione che diventa anche manager, mentre Fuortes è un manager che in qualche modo diventa un impresario come quelli del primo Novecento o di fine Ottocento, che partecipa cioè alla costruzione dell’opera. Entrambi hanno quel profilo, che in parte ha anche Francesco Giambrone a Palermo». 

– Leggi anche: Il modello Fenice: intervista a Fortunato Ortombina

Dovremo abituarci a convivere probabilmente a lungo con il coronavirus. Da molte parti si tende a vedere questa vicenda come a una sorta di catalizzatore di esperienze creative inedite o mai sperimentate prima. Quali opportunità ci vedi? 

«Il futuro prossimo è quello che ho cercato di fare a Torre del Lago forgiando creativamente i vincoli, le costrizioni, i protocolli che ci sono stati assegnati a causa del Covid-19. Non soltanto stabilendo e rispettando il metro o il metro e mezzo di distanza, le 1000 presenze all’aperto o le 200 nei teatri al chiuso, ma cercando di “artisticizzare” i vincoli e le dinamiche messe in moto dalla pandemia. Da artisti, dobbiamo reinventare una modalità di muoverci all'interno di una cornice più stretta. In questo senso, possiamo pensare a una Butterfly dove la scena sia ricoperta di alberi, oppure a una Tosca dove ci siano delle strutture mobili allontanate o a un Gianni Schicchi in un drive-in o ascoltato attraverso auricolari a distanza».

«Da artisti, dobbiamo reinventare una modalità di muoverci all'interno di una cornice più stretta».

«Anche qui torniamo al concetto di purezza: dire “no, io voglio l’opera com’era” riflette una visione museificata del passato. Mi riferisco certo alla contingenza attuale ma più in generale al modo in cui si è trasformata la nostra sensibilità uditiva, la nostra percezione della musica, del suono, del guardare e dell’ascoltare. Il nostro orecchio è molto diverso da quello dei nostri genitori e da quello dei nostri figli. Attraverso una comunicazione molto forte ma soprattutto attraverso la tecnologia, l’ascolto e la visione sono sempre più sottoposti a una modificazione molto forte e inevitabilmente ne risente anche l’arte. Personalmente a volte non capisco quella rigidità legata a un’idea di purezza, quel rifiuto, per esempio, ad accettare un’orchestra amplificata che snatura il suono di Mozart o di Beethoven o di una regia creativa. L'interpretazione è sempre molto affascinante, specialmente quando fa scoprire elementi che prima non immaginavamo». 

Parliamo del Battistelli compositore. Stai lavorando a tre opere: che impatto ha avuto sul tuo lavoro questo periodo di isolamento? 

«Il periodo di lockdown mi ha dato la possibilità di lavorarci tantissime ore al giorno per cui non sono nei tempi... ma nel senso che sono in anticipo sui tempi di consegna, anche per il lavoro che sto facendo per Berlino la cui prima sarà nel gennaio 2022. La prima delle tre è finita, Le baruffe chiozzotte, che debutta al Teatro La Fenice nel marzo 2021. È stata un’esperienza preziosa soprattutto sulla vocalità, perché ho studiato il modo, la flessione, il suono di questo straordinario dialetto, con questi suoni così fluidi, così liquidi. Oltre al fatto di questa straordinaria drammaturgia di Goldoni. Confesso che l'avevo sempre considerato un autore legato fortemente alla tradizione, e invece è un grande conoscitore del teatro. Analizzando nei dettagli questa sua commedia, mi sono reso conto che è un grande conoscitore della macchina teatrale». 

Cosa considereresti come una sconfitta dopo l’esperienza degli ultimi mesi? 

«Occorre dare una risposta molto reattiva e proattiva. È la risposta alla catastrofe che dobbiamo dare come intellettuali, come musicisti. Vorrei si tornasse a una dimensione etica, a un recupero della funzione sociale dell’artista, di quanto sia importante all'interno della società e nella formazione. Su questo mi hanno molto colpito le parole di Papa Francesco che ha invitato a pregare per gli artisti “che hanno questa capacità di creatività molto grande, e per la strada della bellezza ci indicano la strada da seguire”: al di là della preghiera per i credenti, sottolineano quanto sia importante l’artista nella società. Una cosa talmente semplice e ovvia che nessuno ne ha parlato, distratti forse dai numeri».

«La sconfitta è l'illusione di voler tornare al passato».

La sconfitta è l'illusione di voler tornare al passato. Attraverso questa forma apparente di caos, si inventano nuove forme. Non crescere attraverso il cambiamento sarebbe una sconfitta. Lavorare per ristabilire l'ordine precedente non porterebbe a una vera costruzione di società». 

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