L'Atalante di Marchesano, tra Jean Vigo e i Voivod
Atalante è il progetto del contrabbassista Federico Marchesano con Louis Sclavis, Enrico Degani e Mattia Barbieri
Certi dischi si possono apprezzare a diversi livelli: per l’impatto emotivo diretto, al primo approccio, per la gioia del riascolto attento, in cui è dato cogliere focus successivi di particolari che un ascolto basato solo sulle emozioni non riesce a inquadrare, per analisi razionale di quanto si va ascoltando.
Tutte e tre le caratteristiche sono soddisfatte da questo importante lavoro del contrabbassista torinese Federico Marchesano, che peraltro, nella coscienza più “popular”, va a innescare un gioco diretto della memoria. Eh sì, perché a sentir nominare l’Atalante, la barca-casa che intitola il magnifico film sperimentale di Jean Vigo del ’34 vengono subito in mente i magnifici pasticci cinefili di Fuori Orario di Ghezzi: la sigla iniziale con le sequenze di nuoto subacqueo arrivava proprio da quel film misterioso e un po’ onirico; la musica invece, per molti anni, è stata quella "Because the Night" che Springsteen regalò a Patti Smith per valorizzarla, con intuito al solito azzeccato.
L’Atalante del titolo, qui, è il medesimo, fatto salvo che si tratta di una commissione al gruppo di Marchesano per il Torino Jazz Festival del 2018 (lo avevamo raccontato qui). Marchesano in tale occasione ha potuto contare sull’apporto di uno dei suoi musicisti preferiti, il lionese Louis Sclavis, una delle teste pensanti del jazz francese ed europeo tutto, con i suoi clarinetti poetici e visionari, spesso mobilitati, a ben vedere, per commentare immagini fotografiche o immagini in movimento.
Tutti i numeri del Torino Jazz Festival
Gli altri sono Enrico Degani alla chitarra classica, e Mattia Barbieri alla batteria. Nelle lunghe e elaborate note che Andrea Valle ha stilato per il progetto, si mette in luce con bella messe di prove ed esempi che questo è uno strano disco “di jazz”: certo, la struttura timbrica e gli assetti strumentali quelli sono, ma a grattare un po’ la superficie di questi brani intensi e vagamente malinconici, sui quali si alza preciso il canto di Sclavis, e che a volte prendono una patina da antica psichedelia, si scoprono piccoli segreti. Ad esempio che l’iniziale "Le Voci di dentro" cripta in un arpeggio "Zombie Eaters" dei Faith No More, 1989, e che "Germinale" paga con eleganza debiti ai tempi dispari e composti usati dai gloriosi Area, e al contempo omaggia un altro amore del compositore, i fragorosi Voivod. L’ostinato di basso di quattro note di "Vigo", poi, che fa da pilone a tutto il brano, è facilmente assimilabile a certi riff rallentati con la quinta diminuita che hanno fatto la fortuna dei Black Sabbath (il rifermento qui va ad esempio a "Electric Funeral").
E così via. Tutto voluto scientemente, oppure frutto di quella memoria carsica che fa emergere in ogni musicista frammenti di un passato (di ascolti, di suono) che non può passare? Chissà. E forse è neppure importante saperlo, come se le pratiche musicali dovessero passare forche caudine gerarchiche in base alla loro grado di sofisticatezza nello sviluppo armonico.